In morte di Ernesto Che Guevara

Soldatino boliviano con un fucile nordamericano

di Rosa Miriam Elizalde (*); da: cubadebate.cu; 15.10.2020

 

L’impresentabile “presidentessa” della Bolivia (Jeanine Amez, n.d.t.) ha celebrato la morte del Che Guevara rendendo omaggio l’8 ottobre a coloro che il 9 di questo mese del 1967 lo assassinarono per decisione della CIA degli Stati Uniti.

L’intervento della CIA in Bolivia è un fatto e l’attenzione interessata rivolta da Lyndon Johnson ai guerriglieri anche. Il presidente statunitense riceveva regolarmente informazioni sulle tracce del Che, da quando nel 1965 non fu più visto a Cuba.

 

Uno dei 29 documenti declassificati il 22 aprile 1967, pubblicati la scorsa settimana dall’Archivio di Sicurezza Nazionale dell’Università George Washington, registra che il dittatore boliviano René Barrientos informò il generale statunitense William Tope della situazione della guerriglia nel paese.

Barrientos chiese a Washington armi moderne e Tope espresse le sue riserve rispetto all’invio di qualsiasi arsenale, perché “sarebbe inutile se i soldati boliviani non ricevono istruzioni sulla controguerriglia”.

 

Gli ultimi quattro mesi di vita della guerriglia, Ernesto Che Guevara e la sua truppa li passarono cercando di evadere dall’accerchiamento dell’esercito addestrato dai Berretti Verdi statunitensi e consigliato da tre feroci anticomunisti cubani che lavoravano per la CIA. Uno di loro, Felix Rodrìguez, “ebbe un ruolo chiave per guidare gli sforzi del 2° Battaglione Rangers nella regione di Vallegrande, dove i ribelli di Guevara stavano operando”, secondo un altro documento della CIA.

 

La regista e storica cubana Rebeca Chàvez ottenne delle immagini degli addestramenti dei Berretti Verdi e fu la prima a Cuba a intervistare Leonardo Tamayo (Urbano), Harry Villegas (Pombo) e Dariel Alarcón (Benigno), sopravvissuti della guerriglia, quando nessuno li conosceva: “Loro credevano che la morte del capo guerrigliero fosse nei piani, ma ammettevano che in Bolivia tutto era stato accelerato, fondamentalmente per il ruolo degli Stati Uniti” afferma Rebeca.

 

La storia è ciclica, e così sembra che i fantasmi del passato vengano a dirci che gli uomini non fanno la storia per pura volontà.

Il colpo di Stato contro Evo Morales è stato un viaggio di andata verso il peggiore dei passati, ai tempi della dottrina della “sicurezza nazionale emisferica” ed al ritorno di altri processi simili nella storia della regione: il golpe contro Salvador Allende in Cile e contro Chàvez in Venezuela, la copia di una tappa iniziale con una grande campagna nazionale e internazionale di discredito attraverso i media; una seconda tappa di agitazione delle classi medie che hanno favorito l’intervento dei militari e della polizia. E, alla fine, un remake vergognoso dell’assassinio del guerrigliero argentino-cubano, con l’omaggio ai suoi boia.

 

Il mito di Che Guevara, gli insondabili significati del sorriso sul volto del suo cadavere adagiato su un tavolo della lavanderia di Vallegrande, cominciò a camminare per il mondo proprio quel primo giorno in cui l’Esercito boliviano celebrava la morte del guerrigliero con il silente permesso di Washington.

 

Il colonizzatore non ha bisogno di essere fanatico per difendere i propri interessi. Il colonizzato sì, per dimostrare il suo servilismo. Ma né uno né l’altro nel 1967 poterono prevedere che in quello stesso istante era cominciata un’altra guerriglia, non più sulle montagne o nella selva ma nell’immaginario dei popoli. Essi diedero al guerrigliero nuove vite, la ricostruirono, e nonostante l’Ernesto Guevara che oggi viene immaginato non sia quello degli anni ’60, al tempo stesso continua ad esserlo.

 

La storia è ciclica anche quando rinnova il disprezzo per i dittatori con detonatori come l’infame omaggio che l’apprendista dei gorilla rende non al suo esercito ma ai reali assassini del Che che l’hanno catapultata nell’Olimpo della mediocrità nel Palacio Quemado (la sede della Presidenza dello Stato Plurinazionale di Bolivia, n.d.t.) perché continui ad essere tanto mediocre o ancor più di quello che era.

 

Quando l’autrice di queste righe era una pioniera a Cuba e salutava l’inizio delle ore di scuola con un “Saremo come il Che”, senza sapere dove stava la Bolivia e neanche di quale profondità era la vita di quell’uomo, comprendeva invece perfettamente la differenza tra coloro che diedero gli ordini e coloro che lo uccisero.

La presidentessa golpista mi ha fatto ricordare i versi della mia infanzia, scritti dal Poeta Nazionale cubano Nicolàs Guillèn, messi in musica dal cileno Victor Jara, vittima di una dittatura come quella del ciclo Barrientos – Añez:

 

Soldatino di Bolivia, soldatino boliviano

Armato vai del tuo fucile, che è un fucile americano

Che è un fucile americano, soldatino di Bolivia

Che è un fucile americano.

 

 

(*) Giornalista cubana

 

(traduzione di Daniela Trollio

Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

 

Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

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