La “loro crisi” la pagheremo tutti, se non ci organizziamo per lottare uniti

 

La crisi finanziaria attuale è riuscita a creare strani consensi tra la destra e la cosiddetta “sinistra” in tutto il mondo, consensi che rivelano più di ogni altra cosa l’identità di vedute dei diversi rappresentanti delle frazione del capitale: tutto pur di salvare il capitalismo.

E’ stato davvero istruttivo vedere un giorno i cosiddetti rappresentanti dei lavoratori chiedere a gran voce la nazionalizzazione delle banche e il giorno dopo Bush, Sarkozy e Merckel farlo, almeno in parte.

I ministri dell’Eurogruppo hanno chiesto che il “pubblico” – lo Stato - acquisisse partecipazioni nel capitale delle grandi banche e, a bassa voce, che ricominciasse a fare investimenti in infrastrutture di interesse pubblico. Si trattava, con la massima urgenza, di evitare il peggio e per questo si spera che il sacrificio di grandi quantità di denaro pubblico nei buchi neri della finanza permetta di ristabilire la fiducia e il credito. Il capitalismo e l’economia sono diventati una questione di “fede”, non più un fatto materiale, un insieme di ferree leggi naturali a cui non si può far altro che obbedire.

 

In questa voragine sta spuntando di nuovo una vecchia idea, comune a destra e “sinistra”: l’idea di una “economia capitalista reale” opposta ad una “sfera finanziaria virtuale”. A questa distinzione si aggiunge un giudizio di valore: l’economia reale sarebbe virtuosa, perché basata sul lavoro e rispondente a necessità reali, mentre l’economia finanziaria sarebbe un insieme di vizio e corruzione. Questo moralismo è riflesso dalla stampa, che si scandalizza per i 440.000 dollari spesi in festeggiamenti dai dirigenti di AIG, società di assicurazioni appena salvata dal governo USA (un esempio fra altri). A questo va aggiunto lo scandalo prodotto dagli elevatissimi stipendi dei dirigenti delle società finanziarie o i “paracadute” che si sono assegnati da soli in caso di fallimento.

Certo, questi esempi rappresentano casi di abuso, almeno da un punto di vista morale, ma attenzione a fare la morale al capitalismo; lo ricordava Mackie Messer, il gangster e re dei mendicanti dell’Opera da Tre Soldi di Brecht, più di 70 anni fa: “Che sarà mai svaligiare una banca rispetto a fondarne una?!”.

 

Il problema del capitalismo non è la trasgressione delle sue stesse norme giuridiche o morali – trasgressione assolutamente possibile e decisamente frequente – ma il funzionamento normale di un sistema basato sull’espropriazione e sullo sfruttamento del lavoratore, individuale e collettivo.

 

La normale rapina del capitale, rispettosa delle leggi, dello stato di diritto e persino dei diritti umani è un fenomeno molto meno vistoso degli eccessi degli zar della finanza, ma infinitamente più grave. Valgano come dimostrazione la precarietà, la miseria, la mancanza di un futuro degno di intere generazioni e – per parlare solo dell’Italia - i 1.500 morti sul lavoro e le decine di migliaia di morti e ammalati di lavoro, che sono i figli legittimi del capitalismo reale, il capitalismo “buono”.

Per questo cercano oggi di distoglierci da questa realtà per seguire la predica morale di coloro che, artefici e complici, hanno contribuito a fissare questi presunti limiti.

La situazione normale è il capitalismo, obbligatorio e imposto non dal mercato ma dalla violenza di pochi esercitata dallo Stato democratico, che impedisce ai cosiddetti “cittadini” dei nostri stati “democratici” di decidere democraticamente cosa, quanto e quando produrre. Il “cittadino” non può decidere neppure cosa consumare, in questo mercato tanto democratico (definizione di Milton Friedman e dei suoi Chigago Boys, che infatti democraticamente lo sperimentarono nella sua nuova versione di neoliberismo nel Cile di Pinochet), perché nel I° mondo può scegliere solo di acquistare debiti nella gigantesca e ripetitiva offerta dei mercati finanziari o qualche cosa di inutile nel mercato “reale” per sopravvivere alla solitudine e alla noia, con buona pace delle risorse dell’intero pianeta che, ci dicono in questi giorni, sono ormai finite.

Il resto del mondo, che possiede ancora materie prime e fonti di energia, può aspettarsi un’accresciuta rapina delle sue risorse e continuare a morire di fame: tanto l’esercito industriale di riserva è ormai immenso.

 

Lo sfruttamento, la sottomissione della forza lavoro, della capacità fisica e intellettuale degli esseri umani a un comando estraneo che si appropria della ricchezza da essi prodotta è qualcosa di normale. Dopo secoli di manipolazioni e propaganda, quello che agli albori del capitalismo appariva alla maggioranza degli sfruttati come un sistema dispotico oggi ci viene presentato come il paradigma della libertà.

Lo sfruttamento è l’essenza del capitalismo: in esso non c’è produzione di valore ma estrazione di plusvalore. La produzione capitalista presenta se stessa come il processo in cui il “coraggioso” rischio di alcuni personaggi che possiedono ricchezza viene combinato con il “nobile” sudore di chi non ce l’ha, dando come frutto merci destinate a soddisfare le esigenze di tutti. Per entrare nel paradiso del “capitale produttivo” basta chiudere gli occhi all’espropriazione e allo sfruttamento.

Così oggi Emma Marcegaglia può chiedere, con somma faccia di bronzo e senza che nessuno dei cosiddetti “rappresentanti dei lavoratori” la smentisca, che si ritorni al capitalismo “reale”: più produttività e salveranno il mondo.

 

Il capitale finanziario gode invece – oggi più che mai – di una cattiva fama. Eppure non ha fatto altro che liberare il capitale produttivo dalle sue limitazioni di tempo e di spazio. In altre parole lo ha “globalizzato” (la globalizzazione, altro concetto con cui per anni ci hanno bombardato togliendogli ogni significato di classe).

Il capitale finanziario ha dato le ali allo sfruttamento. Se ora gliele taglieranno, non per questo sparirà lo sfruttamento capitalista.

 

Sbaglia chi pensa che questa crisi sia la fine del capitalismo e – ancor più – sbaglia chi pensa che “la loro crisi non la pagheremo noi”. In realtà la stiamo già pagando da tempo, perché la crisi non è scoppiata il giorno X del mese di settembre 2008. Tant’è vero che i capitalisti si sono già attrezzati da tempo: delocalizzazioni, licenziamenti, aumenti dei tempi e dei carichi di lavoro, precarietà estrema, fame, guerra.

Il parlamento europeo ha già votato la “direttiva delle 65 ore” e si prepara a restringere ulteriormente i flussi migratori perchè saranno i lavoratori europei buttati sulla strada in sempre maggior numero a sostituire gli immigrati (la Spagna del “progressista” Zapatero ha redatto nel mese di ottobre la lista degli immigranti a cui sarà permesso l’accesso: ricercatori, scienziati e lavoratori super-specializzati; gli altri possono continuare a morire nel Mediterraneo).

La risposta del capitale sarà la stessa di altre crisi: socializzare le perdite (negli USA ci sono già stati, in pochi mesi, 80.000 licenziamenti nel settore finanziario, nell’edilizia e nel settore dell’auto; il denaro investito per salvare le banche nei paesi industrializzati avrebbe consentito – secondo i calcoli della FAO – di raggiungere uno degli “obiettivi del millennio”, lo sradicamento della fame nel mondo) e garantire ad una cerchia più ristretta i benefici. La guerra resta l’altra grande opzione.

 

Il capitalismo cadrà – come sono caduti altri sistemi economici e sociali che l’hanno preceduto – solo per l’azione cosciente e organizzata del suo nemico: il proletariato e le classi sfruttate e oppresse. E le crisi sono sempre grandi maestre nella storia, perché rendono chiara l’essenza di ogni sistema.

Oggi più che mai, oggi che si è strappato il velo di “civiltà e progresso per tutti” con cui si mascherava lo sfruttamento, è necessario agire per unire e organizzare l’unico soggetto politico in grado di proporre un’alternativa economica, sociale, politica e ecologica alla natura intrinsecamente sfruttatrice e predatoria del capitalismo.

 

Daniela Trollio

Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

Sesto S.Giovanni   e-mail: cip.mi@inwind.it