L'IMPERIALISMO IN UNA TAZZA DI CAFFE'

L’imperialismo in una tazza di caffè

 

di John Smith (*) 

 

La corrente principale della vita politica in Europa e America del Nord si divide sempre più in due campi: da un lato conservatori e reazionari che glorificano l’imperialismo e desiderano risuscitarlo, e dall’altro quelli che affermano di essere progressisti, liberali e socialisti, che esprimono in gradi diversi la vergogna per il passato ma negano che l’imperialismo continui ad essere un elemento significativo da usarsi per definire le relazioni tra paesi ricchi e poveri.

Anche il dibattito sulle riparazioni per i crimini di schiavitù e colonizzazione si definisce in termini di correzione degli errori passati, escludendo qualsiasi idea che il saccheggio imperialista della natura e del lavoro vivo continui felicemente nel mondo moderno “post-coloniale”.

 

Una delle ragioni di questa ‘cecità’ è la confusione delle nozioni di imperialismo e conquista coloniale: con l’eccezione dell’Irlanda del Nord e della Palestina occupata, le colonie appartengono al passato e, quindi, anche l’imperialismo.

Ma la dominazione coloniale è solo una delle possibili forme di imperialismo; la sua essenza immutabile è il saccheggio delle ricchezze umane e naturali. Il capitalismo ha generato mezzi di saccheggio nuovi e più efficaci che l’invio di truppe che saccheggiano i paesi poveri e massacrano le loro popolazioni.

Allo stesso modo in cui la schiavitù come possesso di esseri umani fu sostituita dalla moderazione silenziosa della schiavitù salariata, mediante la quale i lavoratori vendono ‘liberamente’ la loro forza lavoro ai capitalisti, il saccheggio coloniale è stato sostituito da quello che conosciamo sotto l’eufemismo di “libero commercio”.

 

I costi del caffé

 

Consideriamo, ad esempio, una tazza di caffé da 3  euro comprata in una catena di bar. Solo 1 centesimo va all’agricoltore che semina e raccoglie il caffé. Negli ultimi anni il prezzo sul mercato mondiale dei grani di caffé verde si è ridotto a 2,40 euro al chilogrammo, arrivando al suo livello storico più basso intermini reali. Per la maggioranza dei 25 milioni di piccoli agricoltori che coltivano il 94% del caffé del mondo, questa cifra è molto al di sotto del costo di produzione.

I produttori di caffé dell’America Centrale, ad esempio, hanno bisogno da 3,96 a 4,92 euro al chilo solo per raggiungere l’equilibrio. Quindi, attualmente, non ottengono assolutamente nulla dal duro lavoro loro e dei loro figli, che generalmente li aiutano nel raccolto. Dall’altro lato, si stanno dissanguando per i debiti; alcuni, al vedere i loro figli morire di fame, si danno alla coltivazione della coca, dell’oppio o della marijuana, molti abbandonano le loro fattorie e si dirigono alla frontiera con gli Stati Uniti o nei quartieri poveri che attorniano le città.

Invece le società capitaliste che tostano il caffé, quasi tutte con sede in Europa e America del Nord, stanno vedendo crescere i loro profitti, mentre le catene di locali che vendono tazze di caffé e i loro proprietari stanno recuperando circa la metà del prezzo di questa tazza in profitto.

 

L’illusione del PIL

Sorprendentemente, dei 3 euro della tazza di caffé venduta nel Regno Unito, tutti meno 2 centesimi entrano nel PIL di questo paese. Questo è una spiegazione particolarmente chiarificatrice dell’illusione del PIL, l’incredibile gioco di mano grazie al quale la ricchezza - generata dagli agricoltori e dai lavoratori con un surpplus di lavoro in piantagioni, miniere e luoghi di sfruttamento in Africa, Asia e America Latina – riappare magicamente nel prodotto “domestico” lordo dei paesi dove vengono consumati i frutti del loro lavoro. E quei lavoratori sono supersfruttati perchè, per quando lavorino duramente, non possono sfamare le loro famiglie né soddisfare le loro necessità di base, come l’educazione e la salute, che i lavoratori dei paesi ricchi considerano diritti imprescindibili.

Quello che è vero per il caffé è anche vero, in gradi diversi, per i nostri vestiti, gli utensili di cucina e molte altre cose. Ad esempio, dei 22 € pagati a Primark o Marks&Spencer per una camicia fatta in Bangladesh, solo un massimo di 1,1 € entrerà nel PIL del Bangladesh, dei quali forse 1 centesimo verrà pagato al lavoratore della confezione, per il quale 70 ore di lavoro settimanale non sono sufficienti ad alimentare i suoi figli. Se ignoriamo il costo della materia prima, il cotone, la maggioranza di questi € 22 entreranno nel PIL del paese dove si compra questo prodotto per il consumo.

 

Circa il 40% del prezzo di vendita finale finirà in mano al governo, non solo il 20% dell’IVA ma anche le imposte sui profitti del negozio, di quelli del proprietario dei locali e di altri fornitori di servizi, così come sul salario di tutti quelli che lavorano per lui.

Il governo poi usa questo denaro per pagare l’esercito e la polizia, il sistema sanitario, le pensioni, ecc.

Allora, quando qualcuno chiede “perchè dobbiamo lasciare che i migranti utilizzino il nostro sistema sanitario?”, dovremmo rispondere “perchè aiutano a finanziarlo!”.

Sfortunatamente nessuno nella “sinistra” lo dice!

 

Imperialismo del secolo XXI

Durante quella che chiamiamo era neo-liberista, dal decennio del 1980, i capitalisti hanno trasferito la produzione di abiti e molti altri oggetti a paesi a bassi salari. La loro motivazione: aumentare i profitti sostituendo con il lavoro mal pagato all’estero il lavoro domestico troppo caro, riducendo così la fattura salariale ed evitando lo scontro diretto con i loro lavoratori.

Gran parte di quello che chiamavamo “Terzo Mondo” si è trasformato in una grande zona di realizzazione di esportazioni, che produce prodotti a basso prezzo e beni di consumo per l’Europa e l’America del Nord. Come risultati i profitti, la prosperità e la pace sociale nei paesi ricchi sono diventati sempre più dipendenti dal super sfruttamento di centinaia di milioni di lavoratori nei paesi poveri.

Questo va chiamato con il suo nome reale: imperialismo, una forma nuova e moderna di imperialismo capitalista che non si basa sulle crude tecniche ereditate dall’era feudale, ma che certamente pratica il terrorismo di Stato, la guerra segreta e l’intervento militare diretto quando è necessario.

 

Il trasferimento globale della produzione non solo ha permesso una restaurazione della redditività ed un impulso all’accumulazione del capitale, ma ha anche aumentato significativamente la concorrenza tra i lavoratori attraverso le frontiere.

Nella lotta economica – lotta per proteggere e migliorare la posizione di una persona all’interno del sistema capitalistico, in opposizione alla lotta politica per abolirlo – cercare di proteggersi contro una maggiore concorrenza è un riflesso naturale e normale. Ma questo non lo rende progressista!

L’altra faccia della moneta per l’emigrazione della produzione verso paesi a bassi salari è l’immigrazione dei lavoratori di questi paesi. L’ostilità verso l’immigrazione è stato il fattore più importante che portò i lavoratori britannici a votare contro l’ingresso nell’Unione Europea. Il riflesso dei lavoratori in risposta all’aumento della competitività, che esige muri e chiusura di frontiere, è il miglior esempio che si possa trovare per illustrare quello che Lenin chiamò “questa tendenza spontanea al trade-unionismo (sindacalismo) per rifugiarsi sotto l’ala della borghesia” (1).

 

L’evidenza della persistenza e anche dell’onnipresenza dell’imperialismo ci attornia. Ma i liberali, i socialdemocratici e anche molti che vedono se stessi come rivoluzionari continuano ad essere ciechi, aiutati da una discussione semantica su ciò che significa “imperialismo”, nascondendosi dietroo statistiche che oscurano la domanda invece di illuminarla.

 

L’imperialismo glorificato è detestabile, ma l’imperialismo negato è un ostacolo molto più grande per costruire un movimento per rovesciare la dittatura dei ricchi nascosti dietro la lamentabile e screditata facciata della democrazia.

 

Nota:

1. Lenin, “Che fare?” – Opere scelte, vol. 1, Edizioni progresso, Mosca, 1968.

 

(*) Professore di Economia Politica alla  Kingstone University di Londra. Tra i suoi libri “Imperialism in the twenty-first century”.

 

Da: investigaction.net; 3.9.2019

 

 

(traduzione di Daniela Trollio

Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

 

Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

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