PARLIAMO DI FASCISMO

Parliamo di fascismo

 

di Ricardo Aronskind

 

L’elezione di Jair Bolsonaro alla Presidenza della Repubblica Federativa ha e avrà un enorme impatto in Brasile e in tutta la nostra regione. E’ un dato geopolitico, economico e sociologico/culturale che non si può ignorare.

 

Molte analisi sottolineano il carattere fascista del personaggio. Le sue dichiarazioni, i suoi gesti, sembrano tratti da un manuale autoritario, scritto in altre epoche del mondo. La sua viscerale intolleranza verso la sinistra, l’omosessualità, gli indios, le donne e i deboli in generale, è una caratteristica dello spirito fascista. La sua simpatia per dittature e torturatori anche.

 

Ma il fascismo è una categoria politica precisa. Molte volte, nel nostro paese, è stata usata non correttamente da settori progressisti per qualsiasi personaggio risultasse sgradevole, o troppo conservatore secondo i parametri di questo settore.

 

Ma non tutte le persone di destra o reazionarie sono fasciste. E Bolsonaro, letto nei termini delle caratteristiche stariche che contraddistinguono il fascismo, non lo è.

 

Tutti i fascismi sono anti-comunisti. E’ un tratto d’origine e non è casuale.

 

Il fascismo nacque in un’epoca in cui nel mondo era sorto un governo che aveva statalizzato i mezzi di produzione, distribuito la terra tra i contadini e dato un calcio alle relazioni internazionali.

 

L’ordine borghese fu messo in discussione in una forma sconosciuta dalla Rivoluzione Francese e le vecchie forme e pratiche politiche conservatrici aristocratiche non servivano per affrontare un fenomeno che minacciava di espandersi universalmente. Data l’incapacità del liberismo a fare appello alle masse, sorse con forza crescente il fascismo, e il caso paradigmatico fu quello italiano.

Il rifiuto sociale della radicalizzazione politica non fu soltanto quello dei settori minacciati dall’espropriazione dei mezzi di produzione, ma anche di importanti settori delle classi medie, settori rurali e persino poveri, che percepirono con paura e sfiducia altre caratteristiche specifiche del comunismo iniziale.

Il fascismo e la sua direzione, capitanati da Mussolini, seppero interpretare quegli interessi minacciati e quei forti sentimenti, riprendendo persino alcune bandiere della sinistra e dandogli un significato opposto contro di essa. La mobilitazione di massa, l’appello ad un nuovo ordine che recuperasse la grandezza nazionale, furono parte di quello che il fascismo seppe proporre alla società italiana. Insieme, naturalmente, a forti dosi di violenza e di persecuzione dei suoi nemici ideologici e al progressivo strangolamento delle libertà civili.

 

Nel caso italiano il fascismo adottò, sul piano economico, alcune caratteristiche distinte: fortemente statalista e interventista, promotore della potenza nazionale (che si definiva non solo in termini di conquiste territoriali ma nell’ampliamento della potenza produttiva industriale italiana) e, per molti aspetti, modernizzatore di vecchie strutture produttive provenienti da epoche anteriori.

 

Non meno nazionalista era il Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori (NSDAP) di Adolf Hitler. Sebbene i suoi tratti più spettacolari furono il militarismo espansionista ed il genocidio di milioni di abitanti europei, il progetto imperialista hitleriano rifletteva alcuni obiettivi della borghesia tedesca, che già aveva superato in potenza quella inglese e che si trovava compressa, per future espansioni nel suo processo di accumulazione, dalle limitazioni geografiche e di accesso a fonti di approvigionamento. A nessun militare tedesco sfuggiva il fatto che la viabilità dell’espansione coloniale  verso l’Est europeo non poteva realizzarsi se non nella formidabile potenza e capacità dell’industria tedesca che, a sua volta, aveva bisogno di nuove conquiste territoriali per essere in condizioni di concorrenza con la potenza nordamericana.

 

Nonostante fosse un fenomeno più modesto, anche il franchismo spagnolo fu statalista, perché condivise con il resto dei fascismi gli elementi di forte intervento economico e  la protezione statale che li segnarono dalla nascita, perché la sua ragione di essere era bloccare l’ascesa del comunismo, visto il crollo del mondo liberale.

 

Basta la disposizione violenta, autoritaria o direttamente criminale per definire una politica “fascista”? No. La dittatura civico-militare guidata dal dittatore Varela (Jorge Rafael, capo dell’esercito e presidente della Giunta militare argentina, n.d.t.), che rispondeva a vari requisiti in materia di criminalità fascista, non è paragonabile al fascismo storico perché si sosteneva sul terrore e sulla smobilitazione delle masse e nella consegna dell’economia ad un progetto di distruzione dell’apparato produttivo nazionale e di subordinazione al capitale finanziario straniero.

 

In un mondo senza “pericolo comunista”, bisogna capire che l’estemporanea ossessione di Bolsonaro per il comunismo inesistente del Partito dei Lavoratori (PT, il partito di Lula da Silva e Dilma Rousseff, n.d.t.) ha dei fini politici completamente attuali.

 

Tale progetto punta a mettere all’angolo,  violentemente e con un discorso di base irrazionale, il riformismo sociale realmente esistente, insieme alle riserve di sovranità ed ai resti dello spirito di sviluppo che esistono nella società brasiliana. Vecchie e nuove tecniche di persecuzione ideologica verranno messe in gioco, usando il marchio di “ladroni e comunisti” estensibile dal PT fino a tutto il Brasile popolare.

 

Le rivendicazioni delle Forze Armate brasiliane hanno dimensioni più complesse: la fine della dittatura militare coincise nel paese con l’indebolimento dell’impulso allo sviluppo e con l’irruzione dell’ideologia del mercato, che ha limato il progresso brasiliano. Le Forze Armate conclusero ordinatamente la loro dittatura, poiché avevano assassinato molte meno persone di quelle argentine e avevano potuto mostrare chiari successi nell’espansione produttiva del paese.

 

Questa immagine pubblica meno “rovinata” si combina con la sensazione reale di insicurezza che vive una parte della popolazione brasiliana – sensazione che non dovrebbe essere sottovalutata visto che la persistenza di ampi spazi di povertà e marginalità non è stata risolta dal governo del PT e si è rapidamente estesa negli ultimi quattro anni di approfondimento economico neoliberista.

 

Se comunque l’associazione tra la presenza delle Forze Armate nell’ambito pubblico e il miglioramento della sicurezza è una superficialità ed un mito, la mancanza di risposte politiche alternative e comprensibili apre uno spazio a questo tipo di associazioni autoritarie.

 

Fascismo nella periferia?

 

Ha qualche senso pensare alla viabilità del fascismo nella periferia a questo punto del processo di globalizzazione?

 

La nostra regione latinoamericana è da decenni inserita in un processo globale che vede indebolirsi le capacità regolatorie nazionali, che strappa le grandi imprese allo Stato e al capitale locale, e che sta incorporando nelle legislazioni nazionali stesse le richieste di de-regulation provenienti dai paesi centrali. Questo prolungato processo disintegra il tessuto produttivo e approfondisce la dipendenza economica, tecnologica e finanziaria. Si tratta anche di una regione la cui configurazione ideologica è andata scivolando dal nazionalismo dello sviluppo del dopoguerra verso il neoliberismo mitomane dell’attualità.

 

Va ricordato che non tutte le élites governanti nella periferia hanno seguito la stessa traiettoria ideologica.

 

L’irruzione di processi politici come quello guidato dal PT o dal kirchnerismo in Argentina è stata una reazione vitale della società contro il divenire marginalizzante e di sottosviluppo del modello neoliberista che viene imposto dal centro alla nostra regione. Ma questi sforzi per invertire le forti tendenze del capitalismo globale non sono stati sufficienti in quel momento per mettere in piedi un modello alternativo stabile.

 

Fascismo senza nazionalismo, nazionalismo senza economia?

 

Bolsonaro ha già dato segnali molto chiari del suo orientamento economico, integrato dalla sua visione delle relazioni economiche che dovrà mantenere il Brasile. Ed è completamte coerente.

 

La sola designazione di Pablo Guedes (69 anni, economista ultraliberista, formatosi all’Università di Chicago, n.d.t.), rappresentante della finanza internazionale, quale massima autorità economica che concentrerà i ministeri chiave dell’area (un “superministero delle Finanze, Pianificazione, Industria e Commercio, n.d.t.) mostra un orientamente marcatamente neoliberista.

 

La proposta di “privatizzare tutto” costituisce la tipica proposta fondamentalista di mercato che punta a soddifare gli appetiti di appropriazione dei beni già esistenti da parte di attori corporativi esterni. Il Brasile possiede ancora importanti società pubbliche e private e grandi riserve petrolifere, ambite da forti interessi dei paesi centrali.

 

Il PT si era rifiutato di avanzare in questa direzione e, quindi, costituiva un ostacolo politico  tale da dover essere spazzato via. Alla stessa Dilma Rousseff, che aveva già smarrito la via economica progressista nell’aver designato il neoliberista Joaquim Levy quale ministro dell’Economia, fu suggerito il nome di Guedes per sostituirlo. La lobby della finanza e delle multinazionali non ha problemi con alcuna formazione politica purchè questa accetti di applicare le sue proposte di auto-arricchimento.

 

I politici se ne vanno, le posizioni dominanti nei mercati restano.

 

Il futuro presidente del Brasile ha anche affermato la sua volontà di riorientare la politica estera abbandonando visioni “ideologiche”. In questo solco ricadono spazi tanto interessanti come i BRICS, il MERCOSUR, l’Africa e tutte le iniziative che, laboriosamente, la diplomazia del paese aveva tessuto per avere un’ampia proiezione globale. Egli ha ricordato che vuole rafforzare i vincoli in potenza che possano “fornire tecnologia” al suo paese. Questo preannuncia già un grave pericolo per i valenti scienziati e ricercatori brasiliani, ma questo è tipico e caratteristico del neoliberismo periferico latinoamericano: la tecnologia – se necessario – si compra fuori, e nel Nord.

 

Il suo annunciato viaggio internazionale in Cile, Stati Uniti e Israele rivela una marcata preferenza per l’allineamento con un modello neoliberista dipendente nell’economia, e filo nord-americano nella geostrategia.

 

Due anime neocoloniali gemelle

 

Nel mezzo della grave crisi cambiaria del 2° trimestre, il presidente (argentino, n.d.t.) Macri convocò  una conferenza stampa in cui, per generare entusiasmo, segnalò le aree economiche che avrebbero fatto progredire l’Argentina: petrolio, gas, estrazione di minerali, agricoltura, turismo.

 

L’assenza delle attività che caratterizzzano lo sviluppo dei paesi centrali è manifesta e non casuale.

 

Jair Bolsonaro, nelle sue prime dichiarazioni, per riferirsi alla grandezza produttiva del Brasile ha parlato di estrazione mineraria, acqua, biodiversità e turismo.

 

Non si potrebbe riassumere meglio lo sguardo del mondo centrale e degli interessi multinazionali alle caratteristiche della regione: risorse naturali necessarie alle loro necessità produttive manifatturiere.

 

Non c’è alcuna differenza tra il progetto macrista e quello di Bolsonaro con l’ordine neoliberista globalizzatore, il che è agli antipodi delle borghesie fasciste del secolo XX, disposte a sostenere uno scontro con l’ordine mondiale per ampliare i loro spazi di potere.

 

Al contrario Macri e Bolsonaro sono l’introiezione degli interessi del mondo centrale in queste regioni della periferia globale e l’applicazione delle politiche necessarie a smontare tutte le capacità che costituiscono il fondamento della sovranità nazionale.

 

L’entusiamo dei noti neoliberisti locali per l’arrivo di Bolsonaro è notevole. Molti ritengono che i cambiamenti neoliberisti ancora in attesa di essere realizzati – più privatizzazioni, più esternalizzazioni, meno restrizioni sociali o ambientali ai profitti imprenditoriali, evaporazione della legislazione protettiva sociale – dati i lacci sociali ancora esistenti, debbano essere intrapresi a calci. Cioè ... visto che c’è resistenza si deve usare la violenza statale per imporre la riforma neoliberista.

 

La convergenza con le forme semi-dittatoriali è ovvia. Ma, se lo stile può cambiare, il fine è quello di sempre: subordinare e condizionare la regione alle necessità dell’ordine globale, oggi articolato con le zoppicanti élites periferiche associate.

 

Conclusione

 

Il fascismo nelle nazioni centrali era nazionalista, perchè esprimeva – insieme all’obiettivo della sconfitta del comunismo –borghesie con una meta che concepiva una proiezione nazionale ampliata nell’ordine mondiale.

 

Lo stile fascista dei governanti semicoloniali, invece, insieme alla volontà di schiacciare il riformismo sociale locale – anche distruggendo o svuotando le istituzioni del liberalismo politico – vuole invece rendere più profonda la condizione periferica e subordinata dei nostri paesi, in modo che divenga inattuabile qualsiasi progetto nazionale.

 

Dire che Bolsonaro, o i suoi imitatori locali, non sono fascisti non è un complimento. Al contrario.

 

Ci sono cose peggiori che essere un semplice pistolero contro la sinistra.

 

(*) Economista e ricercatore della UNGS (Università Nazionale di General Sarmiento, Buenos Aires), Coordinatore del programma PISCO (Programma di Ricerca sulla crisi dell’ordine mondiale) dell’Istituto di Sviluppo Umano della stessa Università. Da: elcohetealaluna.com.ar; 14.11.2018

 

 

(traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”  Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

 

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