RICORDANDO LA GUERRA ALLA YUGOSLAVIA

Ricordando la guerra alla Yugoslavia – marzo 1999

Su come si vende un conflitto. La guerra come teleromanzo

di Rainer Rupp; da: lahaine.org; 31.3.2017

 

Tra il 5 e l’8 marzo scorsi, la ‘Neue Gesellschaft für Psychologie’ (Nuova Società di Psicologia) ha organizzato a Berlino una conferenza dal titolo “Krieg um die Köpfe” (La guerra in testa). Si trattava di mostrare, tra l’altro, come la cittadinanza viene preparata/sintonizzata/predisposta ad accettare come irrimediabile e inevitabile l’apparente necessità di un intervento belllico, così come i posizionamenti mediatici ed i processi decisionali politici che di solito l’accompagnano.

Tra gli intervenuti si trovava l’autore di Junge Welt, Rainer Rupp, che per molti anni era stato un informatore della Repubblica Democratica Tedesca dal Quartier Generale della NATo di Bruxelles.

Nella sua relazione egli ha elaborato e concretato il procedimento/progressione dei principali mezzi di informazione durante la prima guerra della NATO in Europa, nel 1999 in Yugoslavia, dopo la caduta dei paesi socialisti europei. L’attacco a questo paese è stato il fatto che ha iniziato il cambiamento paradigmatico in materiale politico-militare.  Il lavoro di informazione pubblica e di propaganda che la NATO realizzò per giustificare quell’assalto, e il ruolo straordinario assunto dai cosidetti “media di qualità” come portavoci dei falchi militaristi, documenta fino ad oggi la loro straordinaria compenetrazione. Junge Welt pubblica la versione rivista della relazione di Rainer Rupp.

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La NATO, media, menzogne e propaganda

 

 

Alla fine della Guerra Fredda e disintegratasi l’Unione Sovietica, le “democrazie” occidentali, in materia di politica estera, sono tornate a servirsi di quello strumento imperialista che è l’attacco armato ad un paese europeo. Allo stesso tempo, i dipartimenti del Pentagono incaricati della metodologia psicologica cominciarono a propagare il dogma che dice che “le democrazie non sono belligeranti, non si coinvolgono nelle guerre”. E i vassalli degli USA in tutto il mondo, e prima di tutto in Europa, cominciarono a ripetere questa formula come se fosse un mantra. Così che, da allora, gli USA e la NATO, per definitionem, non si fanno coinvolgere nelle guerre ma in “solidi interventi umanitari” per difendere i diritti umani, aiutare la democrazia e la libertà e, prima di tutto, imporre l’economia neoliberista di mercato.

Ma nei documenti di pianificazione della NATO, riguardo ad esempio al nuovo “concetto strategico” del 1999, si parla con chiarezza della necessità di interventi militari in altre regioni del mondo al fine di “appropriarsi di materie prime, vie di trasporto e di accesso ai mercati”. Lo stesso si può leggere nei successivi “libri bianchi” sulla politica militare della Bundeswehr, le forze armate federali (tedesche, n.d.t.). E non si tratta di documenti militari segreti, il loro contenuto è noto anche se governi e media cercano di non parlarne.

Il fatto è che le costose operazioni militari al di fuori della patria si giustificano meglio davanti alla popolazione ricorrendo al racconto delle atrocità che un nemico nuovo commette piuttosto che chiarendo la fredda logica che consiste nel massimizzare i profitti delle società leaders e dei loro azionisti (shareholder-value).

 

Una volta scelto uno Stato come meta o “target”, la demonizzazione di questo nuovo avversario diventava la priorità massima, tenuto conto che gli animi degli europei, e prima di tutto dei tedeschi, nel 1999 erano ampiamente antimilitaristi. Ma proprio questi dovevano accettare senza brontolare una guerra contro la Yugoslavia. Così i propagandisti della NATO non si stancavano di ripetere la loro parola d’ordine sulla “guerra buona”, quella vinta contro il fascismo tedesco,  la cui necessità viene accettata anche da coloro che rifiutano gli interventi militari.

Era questo il modello a cui ricorsero per giustificare il bombardamento di Belgrado e di altre città serbe, considerando che la cittadinanza tedesca doveva accettare i “danni collaterali” perchè si trattava di “impedire una nuova Auschwitz”, come diceva l’allora ministro tedesco degli esteri, Joseph Fischer, un agitatore dei Partito dei Verdi.

 

Orrende cifre di vittime mortali

La NATO iniziò i suoi attacchi contro la Yugoslavia il 24 marzo 1999. I bombardamenti continuarono per 78 giorni e notti. Dato che l’esercito yugoslavo seppe camuffarsi efficacemente, i bombardieri della NATO colpirono obiettivi civili: acquedotti, ponti, chiuse, centrali elettriche, stazioni ferroviarie, scuole, ospedali, ecc. Mentre, durante la Settimana Santa, le bombe cadevano su Belgrado, a Washington i dirigenti mondiali procedevano a firmare solennemente il nuovo “concetto strategico” della NATO, a mo’ di blueprint, o modello da copiare nelle loro aggressioni in tutto il mondo.

 

Oggi è evidente quello che i più critici avevano già capito allora, cioè che quanto organizzato per la guerra propagandistica contro la Serbia consisteva nel manipolare e nell’incitare i cittadini dei paesi membri della NATO tramite informazioni inventate nella loro totalità. Le informazioni sul corso della guerra, a seconda della necessità del momento, o erano gonfiate o erano elusive. Con storie di straordinaria brutalità e cifre che davano i morti assassinati in centinaia di migliaia, nel Kossovo si pretendeva di creare un’analogia con lo sterminio di massa in stile nazista (1).

Già durante l’anno precedente l’inizio della guerra aerea della NATO, il Kossovo aveva sofferto forti combattimenti per soffocare le rivolte dell’UCK (Esercito di Liberazione del Kossovo), un’organizzazione albanese paramilitare e filofascista/fascistoide. In quell’anno e in quelli precedenti c’erano state circa 2.000 vittime da entrambe le parti.  Ma il numero delle vittime non aumentò particolarmente fino all’attacco della NATO e al susseguente caos, da un lato dovuto ai bombardamenti e dall’altro per il drastico aumento delle operazioni di assassinio e terrore  da parte dell’UCK, che si era alleata alla NATO non solo contro i vicini serbi, i gitani Rom e Sinti, ma anche contro gli albanesi filo-serbi del Kossovo.

Quando iniziarono a cadere le bombe del Patto Militare, cominciò una vera ondata di spostamenti forzati e di fughe. Centinaia di migliaia di persone si ritirarono davanti alle minacce del corpo militare serbo, dell’UCK e alle bombe della NATO; fuggirono dalla miseria e dalla fame, fuggirono dalla guerra.

Secondo l’ACNUR, l’Agenzia dell’ONU per i Rifugiati, in periodi precedenti all’assalto erano fuggiti circa 14.000 albanesi kossovari. Dopo l’assalto cominciò l’esodo di massa, un fatto da cui i propagandisti della NATO seppero trarre vantaggio, sia per evitare la stanchezza della guerra che per attenuare i possibili dubbi tra i cittadini degli Stati membri. Fu allora che il portavoce della NATO, Jamie Shea, ci offrì le sue storie sulle “migliaia e migliaia di giovani scomparsi che potrebbero essere stati assassinati dai serbi”.

 

Il numero di albanesi kossovari “scomparsi” durante le fughe e “probabilmente assassinati”, fu calcolato al rialzo dalla NATO, che alla fine lo indicò tra i 10.000 e i 225.000 (2).

Ancora una volta vennero sottolineate le analogie con l’Olocausto. Nelle conferenze stampa convocate dalla NATO vennero mostrate fotografie prese dai satelliti in cui ogni pezzo di terra rivoltata veniva presentato come una fossa comune. E in tali occasioni, anche il socialdemocratico Rudolf Scharping, allora ministro della guerra, era solito superare se stesso. Le catene pubbliche tedesche, ARD e ZDF, come gli altri “media di qualità” ripetevano, completamente acritici e come pappagalli, le bugie diffuse dalla NATO.

 

Alla ricerca delle fosse comuni

Impessionato da quell’immensa miseria, il grande stratega nordamericano Edward Luttwak scriveva a posteriori su “Foreign Affairs”, una delle più importanti riviste degli USA in materia di politica estera: “Vale la pena riflettere se i kossovari oggi non starebbe meglio se la NATO non fosse assolutamente intervenuta”. Ma l’Alleanza Militare non voleva aiutare la gente del Kossovo, ma questa parte della Yugoslavia le serviva da giustificazione per preparare un cambio di regime a Belgrado, e utilizzare il suo intervento come modello paradigmatico per mettere in pratica il suo nuovo “concetto strategico”.

Nel giugno 1999, quando alla fine le armi tacquero e la Yugoslavia, colpita da tanta distruzione, aveva smesso di resistere, quando le prime truppe della NATO si disposero ad invadere il Kossovo, iniziò una frenetica caccia alle presunte fosse comuni.

Il giornale britannico The Indipendent, che non aveva partecipato all’isteria bellica regnante, rilevava un autentico ambiente da “cercatori d’oro” tra i giornalisti presenti in Kossovo. A chiunque fosse capace di fornire uno dei primi reportage di una fossa comune era garantita la fama e la fortuna. E i più ingegnosi tra gli albanesi sapevano come approfittare di questa situazione. “Non molto lontano da qui c’è stato un massacro”, citava il menzionato quotidiano su quello che uno di questi riferiva ad un reporter perchè andasse sul luogo in cambio di una certa quantità di dollari. E, per aumentare l’interesse del reporter, aveva aggiunto: “Venti cadaveri senza testa”. Alla fine il giornalista perse il suo denaro, senza aver visto la spettacolare fossa comune.

 

Quando sorsero i primi dubbi sul numero di assassinii perpetrati e sulla quantità di fosse comuni, i propagandisti della NATO rividero al ribasso le loro stime precedenti e osarono affermare che in alcun momento si era parlato di centinaia di migliaia di morti. Ora parlavano di 10.000 morti assassinati trovati in 130 fosse comuni. Ma non si trovarono le prove neppure di queste ultime affermazioni. Le “fosse comuni” che vennero scoperte con grande enfasi mediatica in maggioranza non erano altro che un fallimento: nessun indizio di cadaveri umani, ne di resti. Nelle fosse che, in base alle fotografie satellitari e alla terra sconvolta, erano state “vendute” come “fosse comuni” giacevano i cadaveri di bovini e di altri animali domestici.

Quanto successe in seguito non poteva essere più grottesco: spinti dal dipartimento di disinformazione della NATO, i giornalisti conclusero che “quello che non deve essere non può essere”. Il fatto che nelle “fosse comuni” non si fosse trovato altro che cadaveri di animali domestici fu interpretato dalla stampa “gialla” come una prova di straordinaria abiezione dei serbi i quali, per impedire che la NATO scoprisse i loro crimini di guerra, sarebbero tornati  a riesumare i cadaveri umani per seppellirli in altri luoghi. Si sapeva anche dove: nelle gallerie sotteranee delle miniere di Trepca, nel nord-est del Kossovo. Ma dato che neanche lì fu trovato alcun cadavere, ai reporters venne un’idea nuova, con cui tornarono ad evocare l’immagine dell’Olocausto, affermando che i cadaveri erano stati bruciati negli altoforni serbi in Kossovo. Ma anche là non si trovò alcuna traccia, per quanto le diverse équipes di medici forensi – arrivati dai vari paesi membri dela NATO - le cercassero. Tra queste équipes il nordamericano FBI era il contingente di gran lunga più numeroso. Si arrivò a definire il territorio come “il luogo del delitto più grande di tutta la storia forense dell’FBI”.

Qualche mese più tardi i delegati dell’autorità nordamericana dovettero ritirarsi senza aver trovato nulla. Il capo della delegazione forense spagnola arrivò a lagnarsi davanti ai media del fatto che lui e i suoi colleghi erano serviti da scusa o da alibi alla NATO e alla sua politica, a lamentarsi che “siamo stati degradati ad una piroetta semantica all’interno della macchina di propaganda bellica, visto che non abbiamo trovato neppure una sola fossa comune” (3).

Finalmente John Kifner del New York Time ebbe l’idea salvatrice: con l’autorevolezza di cui gode il suo giornale, arrivò ad affermare che i cadaveri erano stati spostati nei centri industriali serbi e lì bruciati in altoforni diversi; e dato che l’Alleanza Militare non poteva cercare da sè sul terreno serbo, era impossibile dimostrare ai serbi i massacri che avevano commesso.

 

Quello che deve davvero preoccuparci è il fatto che alcuni media, precedentemente seri, si siano lasciati manipolare come strumento di una primitiva propaganda bellica. Riguardo alla maggioranza delle atrocità di cui si parlava, il portavoce della NATO si riferiva a dati ricevuti dal governo britannico. E le affermazioni del governo non si basavano in assoluto sulle investigazioni in situ ma sulle dichiarazioni di presunti testimoni, dichiarazioni ottenute dagli albanesi kossovari rifugiati nei campi di Albania e Macedonia, e su alcuni dati raccolti a partire da informazioni della stampa regionale e militare, rispettivamente.

Tra le atrocità riferite quella delle donne incinte (in questo caso donne albanesi) a cui alcune bestie (in questo caso bestie serbe) avevano strappato i feti.

 

Tanti nuovi Hitler?

Repoters gialli in azione: sempre sul piede di guerra ma senza vedere quello che gli sta passando davanti agli occhi, ma interpretando quello che viene dettato dalla NATO.

Un anno dopo il Tribunale Penale Internazionale (TPI) per la ex Yugoslavia con sede all’Aja, non instaurato dall’ONU ma convocato e pagato dalla NATO, sentenziò che nelle “fosse comuni” in Kossovo si erano trovati un totale di 2.788 cadaveri. Va osservato che si trattava dei resti mortali di coloro che avevano lottato in entrambi gli schieramenti e, anche, di vittime civili che l’UCK aveva assassinato durante la guerra, centinaia di serbi, Rom, Sinti e albanesi filo-serbi. Le migliaia di morti civili che erano caduti vittime dei bombardamenti della NATO non entrarono neppure nel conto.

E’ interessante notare che sia stato proprio il direttore della più grande società privata di spionaggio nordamericana “Stratford Intelligence”, George Friedman, a pronunciare la critica più dura dell’establishment sulla guerra della NATO in Kossovo. Friedman diceva che, secondo lui, il numero di morti era rilevante per partita doppia. Primo, riteneva decisivo chiarire “se la NATO aveva detto o no la verità, al momento di iniziare una guerra”. Secondo, considerava che “esiste una differenza qualitativa tra centinaia di morti, da una parte,  che siano caduti in un’operazione per combattere il terrorismo e, dall’altro, nell’assassinio di massa di migliaia e migliaia di persone vittime di un genocidio”.

Col titolo “Dove sono i campi della morte in Kossovo?”, questa società di spionaggio aveva pubblicato il 17 ottobre 1999 un’analisi critica che contrastava con quanto affermato dalla NATO riguardo al genocidio serbo contro gli albanesi kossovari, con lo scarso numero di cadaveri trovati in realtà. “Se fissiamo la soglia per giustificare l’invasione e la perdita di sovranità di un paese in qualche centinaia di morti, che avrebbero perso la vita in atti violenti a causa della loro etnia, allora il ‘casus belli’ avrebbe dovuto già valere in numerosi paesi e circostanze, dalla Gran Bretagna alla Turchia ... fino alla Corea del Sud (...) Ma se risulta che i crimini dei serbi non si distinguono da quelli perpetrati in altri paesi, la decisione di bombardare la Serbia risulta sospetta in termini morali”. Visto così, il numero di morti è essenziale per George Friedman.

 

I responsabili intellettuali delle mattanze in Kossovo, l’ex presidente USA William Clinton, il suo omologo britannico Anthony Blair e il cancelliere federale Gerhard Schröder con il suo ministro degli Esteri Joseph Fischer, fino ad oggi non sono stati messi sotto accusa. Al contrario, nel mondo dei valori occidentali continuano a godere del massimo riconoscimento.

Chi finì per essere responsabile delle “fosse comuni” del Kossovo, come un “nuovo Hitler”, fu il presidente Slobodan Milosevic.

 

Le presunte fosse comuni e le presunte  atrocità in Kossovo vennero inventato nello stesso laboratorio alchimista della NATO, proprio come, anni dopo, le favolose armi di distruzione di massa dell’Hitler iracheno Saddam Hussein, o le “esecuzioni di massa” ordinate dall’Hitler libico Muhammar Gheddafi, o l’impiego di gas di cloro contro il suo stesso popolo dell’Hitler siriano Bashar al-Assad.

Non molto tempo fa, la ex ministra USA agli esteri, Hillary Clinton, chiamò in varie occasioni “nuovo Hitler” il presidente russo Vladimir Putin, come del resto ha fatto anche il primo ministro britannico David Cameron.

 

La guerra come teleromanzo o telenovela

Infine un paio di commenti su Jamie Shea, quell’eterno sorriso nella guerra del Kossovo. Proprio un anno dopo l’attacco alla Yugoslavia, l’allora portavoce della NATO fece parlare molto. Il 29 marzo 2000 il Neue Zürcher Zeitung [NZZ] riferì di un suo intervento a Berna dove, davanti agli sbalorditi ascoltatori provenienti dal mondo economico e politico, raccontò come la NATO aveva ingannato la comunità internazionale su quella guerra. Nel suo discorso “Selling a conflitto – the ultimate PR Challenge” (“Come si vende una guerra – l’ultima sfida in materia di Relazioni Pubbliche”), egli presentò se stesso come l’uomo che ci mette in lattina, ci vende e quasi vince la guerra, come se fosse un prodotto di marca.

E per i giorni un po’ flosci della guerra, Shea ci consiglia: “Se non hai una storia, devi inventartene una”. Considera anche che il pubblico adora le puntate quotidiane di “teleromanzi e telenovelas”; e che c’è bisogno di protagonisti come lui. Racconta che fino a quel momento è conosciuto in tutte le parti del mondo e che la rivista “Elle” l’aveva eletto tra i più eccitanti uomini al mondo.

Al che la ZNN commenta che si sperava che questo Narciso, innamorato di se stesso, rendesse di più in campo sessuale che nella comunicazione dei dati NATO. In democrazia il pubblico ha il diritto a esigere che i suoi rispettivi governi in guerra forniscano un’informazione veritiera. Il credito, la credibilità, poggiano su un’informazione fedele. Se questa fedeltà viene osservata per lungo tempo, il cittadino è disposto a dare la propria fiducia, anche in condizioni in cui la discrezione o il segreto impediscano che gli si forniscano tutti i dettagli, ritiene il NZZ. E continua comentando: “Se un piccolo portavoce, che non riesce a capire la situazione, ritiene che tutto si riduca alle pubbliche relazioni e lo afferma, finisce per ridurre notevolmente il valore di mercato dei potenti. Improvvisamente tutta la sua credibilità finisce, lui non serve più. Dopo un po’ uno si chiede, grattandosi la testa: si, come si chiamava quel ... portavoce? Jamie ... cosa?

Ma in questo il giornale si sbagliava.

Shea continua la sua carriera nella NATO. La sua traiettoria è sintomatica del carattere di tutta l’organizzazione. Non solo è arrivato ad essere il direttore della sezione “Pianificazione Politica”, ma oggi è Vicesegretario Generale dell’Alleanza. Adesso può andar rovesciando discorsi sulla Russia e sul suo incalcolabile potere, quel potere che si è trasformato in una nuova minaccia per la pacifica NATO che tanto ama e difende i valori democratici.

 

Note

1) Vedi l’articolo pubblicato su New Statement il 4.9.2000 -http://www.newstatesman.com/node/138456

2) Vedi fonte citata in 1)

3) Fonte: http://www.americanthinker.com/articles/2014/09/the_unspoken_obama_lie_that_led_to_benghazi.html

 

(traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

 

Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

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