FIDEL CASTRO

Dalla rivista nuova unità (dicembre 2016)

 

Fidel

di Daniela Trollio (*)

 

Il Comandante se n’è andato, le sue ceneri riposano nel cimitero di Santa Ifigenia a Santiago de Cuba, culla della Rivoluzione cubana, vicino a quelle dei suoi compagni di lotta del Moncada e della Sierra Maestra, della clandestinità, delle missioni internazionaliste…. e milioni di cubani (ma non solo) lo hanno accompagnato - questa volta  televisioni e giornali non hanno potuto nasconderli - con dolore e dignità.

 

E’ un compito impossibile quello di riassumere il significato della sua vita, inestricabilmente e per sempre legata alla rivoluzione che ha portato un piccolo paese, un’isola sperduta nel Mar dei Caraibi con 6 milioni di abitanti nel 1959, ad essere una nazione che ha influito sulla storia mondiale degli ultimi 60 anni.

Questo compito lo lasciamo a Raùl Castro Ruz, che ha condiviso la sua lotta dal primo giorno e che parla non per sentito dire ma con il diritto di un altro protagonista: leggerete il suo discorso di commiato in altra parte di questa pagina.

 

Ci limiteremo quindi a ricordare poche cose che crediamo siano importanti. 

Un piccolo paese, dicevamo, con 6 milioni di abitanti: il bordello, il casinò e la zuccheriera della grande potenza che sta a meno di 100 miglia dalle sue coste. Alcune cifre di allora: mortalità infantile superiore a 60 su mille nati; speranza di vita di 60 anni per gli uomini e di 65 per le donne; 1 medico per 1.000 abitanti, il 44 per cento della popolazione mai entrata in una scuola. Pochissime industrie e lo sterminato latifondo della canna da zucchero, dove l’8 per cento dei proprietari possedeva il 70% delle terre.

Fidel, nella sua arringa di difesa passata alla storia con il titolo di “La storia mi assolverà”, così descriveva le cifre di cui sopra, la sua analisi di classe che porterà al suo concetto di “popolo” (cubano, ovviamente):

600.000 cubani senza lavoro, 500.000 salariati agricoli che abitano in capanne miserabili; 400.000 operai industriali e braccianti a cui vengono rubati i salari; 100.000 piccoli agricoltori che vivono e muoiono lavorando una terra che non è loro; 20.000 piccoli commercianti carichi di debiti; 10.000 tecnici giovani: medici, ingegneri, avvocati, veterinari, insegnanti, dentisti farmacisti, giornalisti, pittori, scultori,  ecc., che escono dalle aule con le loro lauree desiderosi di mettersi in gioco e pieni di speranza per trovarsi invece in una strada senza uscita..”.

A questo “popolo” Fidel promise un mondo diverso, una rivoluzione che cambiasse per sempre la loro vita e quella dei loro figli e nipoti, e insieme a loro, con loro e per loro,  l’ha fatta e l’ha difesa per tutta la vita.

Una rivoluzione che Ernesto Che Guevara, nel luglio 1967 in Bolivia,  definiva nel suo Diario “ribellione contro le oligarchie e contro i dogmi rivoluzionari”. Si, avete letto bene, “dogmi rivoluzionari”, perché per una parte della sinistra il Moncada (e quello che noi ci ostiniamo a definire rivoluzione cubana) non era “politicamente corretto”. Perché le condizioni e le strategie dei bolscevichi russi non esistevano nella Cuba del 1959. E allora che fare?

Come aveva scritto ben prima il grande pensatore marxista Carlos Mariàtegui – che aveva visitato l’Unione Sovietica di Lenin e conosciuto la Torino del biennio rosso di Gramsci – la rivoluzione in America Latina non doveva essere “né calco né copia, ma creazione eroica, o non sarà”. Così fu e da allora Cuba è stata il necessario riferimento di tutti i popoli e i rivoluzionari che non si trovavano in quelle condizioni.

Si, si può fare” dice Raùl Castro nel suo discorso di commiato a Fidel, riprendendo ironicamente e rovesciando il lema – completamente fallito - di Obama, ed è l’insegnamento più grande di Fidel e della rivoluzione cubana agli sfruttati ed agli oppressi – di ieri, di oggi e di domani - del mondo intero.

 

Dopo poco più di 60 anni, le cifre sono cambiate: più di 11 milioni di abitanti; mortalità infantile di circa il 4,2 per cento - inferiore a quella di Canada, Stati Uniti e di alcuni stati europei; speranza di vita  elevata a 75 anni; 7,7 medici per abitante (uno ogni 130 cubani, la più alta percentuale del pianeta, compresi i 25.000 medici impegnati in missioni internazionaliste in tutto il globo);  analfabetismo completamente sconfitto ed un tasso di scolarizzazione altissimo, dove le donne costituiscono il 65% della forza produttiva del paese. Più del 70% delle terre coltivabili sono di proprietà dello Stato, così come il tessuto industriale di Cuba, circa 3.000 imprese. E tutto questo conseguito nonostante i 50 anni e più del blocco economico statunitense, il più feroce mai visto nella storia.

Ma, dirà qualcuno, questa è semplice socialdemocrazia, non socialismo. 

Già, ma se traduciamo in altre parole questi numeri e queste percentuali,  otteniamo: la dignità, che significa vedere riconosciuto il proprio “essere umano” e la possibilità di svilupparlo completamente, di lavorare per i bisogni propri e degli altri senza che nessuno si appropri del frutto di questo lavoro; la proprietà dei mezzi di produzione ai produttori (e chi ha visto nei “Lineamenti” un cedimento al capitalismo se li vada a rileggere, o a leggere… perché ha creduto alla versione del Corriere della Sera); l’organizzazione di uno Stato e di un sistema politico di tutto  il popolo, e da esso controllato dalle assemblee dei luoghi di lavoro fino all’Assemblea Nazionale del Potere Popolare e guidato da un Partito Comunista; la superiorità di questo sistema sociale, capace non certo di permetterci di comprare tre cellulari all’anno, ma di garantire una vita e un futuro, nel senso pieno della parola, a tutti.

In una parola il potere di spezzare quel meccanismo infernale che è lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, che sta portando alla morte l’intero pianeta, e non è mai stato più chiaro di così. E se il socialismo non è questo, qualcuno mi spieghi cos’è.

 

Certo, il socialismo cubano, o meglio le “conquiste del socialismo” come le definiscono i cubani, non è certo perfetto perché è opera di uomini di carne e ossa, con i loro errori e le loro contraddizioni e, soprattutto, che vivono circondati dal loro nemico mortale, il capitalismo.

E Fidel fu il primo a dire che “l’errore più grande è stato di pensare che qualcuno sapesse come si costruiva il socialismo”. Così come, nel 2005, davanti al futuro del paese rappresentato dai giovani, gli studenti dell’Università dell’Avana, avvertì: “Questo paese può autodistruggersi. Questa rivoluzione può autodistruggersi, ma loro non potranno mai distruggerci. Potremmo distruggerci noi stessi e questa sarebbe colpa nostra”.

 

Il resto è storia: l’antimperialismo in Africa e in America Latina, le missioni umanitarie (queste vere) in decine di paesi, dal Tibet ad Haiti al Venezuela… ci vorrebbe troppo spazio.

Un’ultima, piccola nota: ogni volta che a Cuba accade un fatto (ed è successo innumerevoli volte ma gli uccellacci del malaugurio non imparano mai) in molti si affrettano a predire la sua fine, e così è stato anche per la scomparsa fisica di Fidel.

Nel mondo in cui viviamo ci hanno abituato a considerare ogni ‘grande’ uomo una cosa a sé. Ma…. ogni volta che è scoppiata una lotta, una ribellione, il volto di un altro “cubano” per adozione – Ernesto Che Guevara – anche lui scomparso fisicamente è tornato sulle barricate, sui muri, sulle bandiere.

Gli uomini muoiono fisicamente ma le loro idee - quando sono la sintesi dei desideri, delle aspirazioni, della storia di lotta dei loro popoli e questo è più che mai il caso di Fidel -  non muoiono mai.

Hasta siempre, Comandante.

 

 

(Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

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