SANITA' DI CLASSE NEGLI USA

Miseria nella giugulare del capitalismo

 

di Ilka Oliva Corado (*)

 

 

 

Faccio il numero telefonico e chiamo, mi risponde la receptionist della clinica; voglio un appuntamento con un ortopedico; lei mi spiega i requisiti, si tratta di una clinica esclusivamente per i paria. Solo i dimenticati e gli sfruttati del sistema si rivolgono a questo tipo di cliniche negli Stati Uniti. Io sono una di loro, il mio salario da persona senza permesso di soggiorno non mi basta per pagare una clinica privata e non ho un’assicurazione sanitaria per andare in un ospedale del sistema.

 

Il requisito principale è essere un paria, il secondo avere un documento autenticato dove viene specificato il salario: quale padrone vuol dare un documento autenticato ad un lavoratore senza documenti? Per fortuna il mio attuale datore di lavoro l’ha fatto.

 

 

 

Il giorno dell’appuntamento arrivo alla clinica e incontro montagne di gente che stanno aspettando di essere ricevute. E’ inverno e la temperatura è di – 18°, nell’edificio non c’è riscaldamento. Una delle persone che sta aspettando mi dice che il riscaldamento è rotto da giorni.

 

Mi apro la strada attraverso il tumulto per arrivare alla reception; l’impiegata è un’afrodiscendente che, notando che sono latina, cambia il tono e mi parla con malavoglia in un inglese marcato perché io capisca e lei non debba ripetere due volte. Mentre parla fa dei segni, è una pratica molto comune in questo paese che gli statunitensi utilizzano con chi non parla inglese, e questa persona farà tutto il possibile per trovare un significato (quale che sia) alla mimica, al linguaggio del corpo e ai gesti, è un modo di sopravvivere per gli immigrati appena arrivati che non parlano inglese.

 

 

 

La osservo attenta e faccio attenzione a quello che mi dice: devo prima passare alla cassa, dare il mio documento autenticato e confermare l’appuntamento programmato. Alla cassa c’è una latina, mi parla in inglese, mi spiega i particolari: devo pagare 30$ per la visita, ma guarda il mio documento e vede che il mio salario è molto al di sotto di quello minimo, corregge la cifra e mi dice che devo pagare solo 20$. Mi manda in sala d’aspetto.

 

 

 

Ho un libro di poesie da leggere mentre aspetto, ma non ci riesco, mi opprime il freddo dell’inverno che fa tremare tutti quelli che aspettano, latini e afrodiscendenti, non vedo un solo statunitense anglosassone, asiatico o europeo. Noi che stiamo qui siamo i paria dei paria. Le due parti della popolazione statunitense che si battono per i lavori che altri non vogliono fare perché sono sporchi, stancanti, mal pagati.

 

 

 

Tengo il libro tra le mani ma lo sguardo mi si svia sulle scarpe rotte delle madri che aspettano con i loro figli in braccio. Penso alla temperatura, - 18 gradi centigradi. Anche gli anziani sulle sedie a rotelle tremano per il freddo. Il personale della clinica passa da un corridoio all’altro, camminano con quella malavoglia di chi sta facendo il lavoro sbagliato. Mi piacerebbe pensare che questa fatica si debba al sovraccarico di lavoro, alle poche ore di sonno, a problemi personali ma c’è qualcosa di inumano nel trattamento verso il paziente: non li guardano negli occhi, non sono persone, sono numeri, casi, malattie.

 

Come i senza documenti per i mezzi di informazione vicini al “sogno americano”, per le statistiche, per i sociologi, per i “difensori dei diritti umani degli immigranti”, per registi, politici, per quel settore che vede in noi un trampolino di lancio a beneficio personale. Per loro siamo numeri e rimesse. Mai ci vedranno come esseri umani in tutto il contesto.

 

 

 

Mi si sta lentamente formando un nodo di sale in gola, respiro profondamente e continuo ad osservare; persone vestite di cenci, con l’aspetto di indigenti, latini e afrodiscendenti, molti messicani e centroamericani. Noto che la maggior parte del personale è portoricano o di discendenza portoricana.

 

Le pareti macchiate e con la pittura che si scrosta, le porte ossidate, le sedie che perdono la vernice, tutto in decadenza. Un aspetto lugubre e deprimente. E come negli ospedali pubblici del mio sofferente Guatemala, le medicine delle ricette le compra il paziente a parte. In un attimo mi sono sentita nel caos dell’Ospedale San Juan de Dios, ma questa clinica lo supera nel deterioramento. Osservo il soffitto e il cielo falso che è vicino a disfarsi.

 

 

 

Guarda – mi dico – la miseria nella giugulare del capitalismo. La clinica è a pochi isolati dal centro della città, dal glamour, dai grattacieli, da quella faccia statunitense dell’opulenza con cui i media vendono l’inganno del paese più ricco del mondo.

 

La clinica è solo una radiografia, una piccola revisione generale, qualche pastiglia per il dolore, perché le malattie realmente serie sono curabili solo negli ospedali e noi senza documenti non vi abbiamo accesso. Quelli che muoiono di più di malattie terminali in questo paese sono latini e afrodiscendenti, perché i loro bassi salari non bastano a pagare quei trattamenti costosi che diventano privilegio di alcuni. Se questo è molto difficile per gli statunitensi che hanno il salario minimo, per un senza documenti diventa impossibile perché non vi è possibilità di accesso ed i salari sono da insulto.

 

 

 

Com’è possibile – penso tra me mentre osservo la calamità – che questo paese investa milioni di dollari in guerre, in invasioni di altri paesi, in corruzione, nel polarizzare l’informazione, in carceri per i clandestini, in deportazioni, se qui all’interno c’è tanta necessità. Mi risuona in testa la canzone di Victor Jara, “le casette del quartiere alto” ed è così reale in questo paese, un’autostrada che divide il nord dal sud, nel nord della città ci sono i grattacieli e nel sud la povertà estrema, la decadenza ingiustificabile.

 

Perché questo paese non investe nel dare una migliore qualità di vita a coloro che vivono all’interno del paese stesso e smette di far disastri con la sua politica estera? Perché non rende realtà la Riforma Migratoria invece di continuare a firmare Azioni Esecutive contro altri paesi? Che si preoccupi della sua politica interna e non ficchi il naso nei governi stranieri!

 

 

 

Perché i mezzi di comunicazione non informano su questo, su questa calamità alla luce del sole in questo paese? Perché si continua ad ingannare le masse con la menzogna di un sogno americano che non è mai esistito? Perché si continua ad intervistare “latini ed emigranti arrivati” quando la realtà è un’altra e ci sputa in faccia tutti i giorni? Perché si cerca di nascondere ad ogni costo la puzza del tombino dove i poveri marciscono in miseria? Quello che sconvolge, quello con cui si ha a che fare, quello che mette in discussione?

 

Anche questo paese con una classe politica superba, fatta da un po’ di milionari che si credono i padroni del mondo e delle vite, ha la miseria, la povertà estrema; i suoi cittadini hanno necessità elementari che il sistema non copre perché sta investendo in invasioni di terre straniere.

 

 

 

Qualcuno di altrettanto superbo e ignorante dirà “ma perché vengono in questo paese se hanno il loro”? Perché vanno a pulire i bagni ai gringos e a mendicare?”. La domanda non è perché vanno o perché puliscono bagni, la domanda è: “perché i governi dei paesi di origine li obbligano ad emigrare?”.

 

La domanda non è per quelli che sono obbligati a migrare, la domanda è al sistema, ai governi, alle società indolenti. Alle società che non fanno nulla per cambiare il sistema colonizzatore, razzista e classista che obbliga i paria a migrare.

 

Cosa faranno queste società e questi governi per fermare le migrazioni forzate? Cosa faranno perché quelli che se ne sono andati ritornino ad un paese che offra loro opportunità di sviluppo? Che cosa faranno perché altri non siano forzati ad emigrare?

 

 

 

La domanda è rivolta alla politica estera di questo paese: “quando smetterà di invadere paesi e di comprare e manipolare governanti e sistemi?”. Quando permetterà loro di essere in attivo perché quelle masse non siano costrette ad emigrare?

 

Se non vuole migranti senza documenti nel suo territorio, che la smetta di invadere paesi.

 

 

 

Dalla porta della sezione di medicina interna esce un’infermiera afrodiscendente, ha un foglio in mano e chiama una tale Ilka Oliva; è il mio turno, mi alzo e vado dove mi indica, di malavoglia mi misura la pressione. Mi dice di nuovo di aspettare fuori; dopo un tempo che a me pare interminabile, esce un’altra infermiera che mi chiama e mi porta nell’ambulatorio del medico che si occuperà di me, è una dottoressa latina che mi diche che parla molto poco lo spagnolo e che se io parlo inglese sarebbe più facile. Qual è il motivo della sua visita? Una lesione ai legamenti in uno delle mie ginocchia. Esco dalla clinica gelida, lugubre e deprimente per andare incontro alle intemperie dell’inverno statunitense, mi fermo ad un angolo sperando che il semaforo cambi colore per far passare i pedoni; a pochi isolati splende ostentatamente il centro della città con i grattacieli come metafore di un capitalismo che scommette sul consumismo e sulla degradazione umana. Per le stesse strade camminano poveracci che cercano cibo.

 

Un altro mondo è possibile? Quando?

 

 

 

(*) Scrittrice e poetessa guatemalteca, emigrata senza documenti negli USA.

 

da: rebelion.org; 4.2.2016

 

 

 

(traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

 

 

 



 

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