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Nella logica del capitale: i pericoli della guerra e dello stato sociale

di Gustavo Borges Revilla (*)

All’inizio del 2011, in tutta l’Africa, un solo paese aveva un livello di vita più alto di quello di molte nazioni europee. Si dice che tra i suoi risultati più consolidati, servizi di “prima necessità” come la salute, l’elettricità, l’educazione e la casa non avevano alcun costo, erano tutti gratis.

I prestiti concessi alla popolazione di qualsiasi tipo per legge avevano interessi 0%. La casa era considerata un diritto umano inalienabile. La popolazione viveva con solidi livelli di comodità in uno Stato sociale garantito. Zero problemi notevoli in termini economici o di gestione. I piani di giustizia sociale e di uguaglianza promessi dal suo leader si stavano compiendo.

 

Il 19 marzo di quello stesso anno 2011, aerei da caccia della forza aerea della NATO cominciavano un bombardamento su Bengasi e, ore dopo, 110 missili da crociera Tomahawk venivano scaricati, con cieco furore, su altre città importanti della Libia, quel paese con “indici di sviluppo” impensabili in altre nazioni del continente africano. Otto mesi dopo questo primo bombardamento, venivano proiettate in diretta in tutto il mondo una sequenza delle immagini più nefaste degli ultimi tempi: alcuni momenti prima di essere assassinato con uno sparo nella testa Muhammar Gheddafi, leader di quel paese per oltre 40 anni e politico di grande influenza nel mondo, veniva sodomizzato dai suoi catturatori, combattenti del gruppo terroristico di Al Qaeda e da altri soldati di organizzazioni multinazionali. Mercenari telediretti da settori profondi dello Stato yankee e delle sue multinazionali, oltre alla loro colonia dell’Unione Europea, che facevano la maggior parte del lavoro sporco.

 

Alcuni giorni prima di essere catturato Gheddafi, già cosciente del suo destino, scrisse un documento con riflessioni chiave per un successivo studio, non di questa guerra ‘cantata’ anni prima dai poteri corporativo e militare occidentali, ma dei motivi profondi che l’hanno resa possibile dall’interno.

Gheddafi diceva: “Per 40 anni, e anche di più, ho fatto tutto quello che potevo per dare al popolo case, ospedali, suole, e quando avevano fame, alimenti. Anche a Bengasi ho trasformato il deserto in terra fertile (…); ho fatto tutto il possibile per aiutare la gente a capire il concetto di democrazia reale, dove i comitati popolari dirigono il nostro paese. Ma questo non è bastato, anche le persone che avevano una casa di 10 stanze, vestiti nuovi e mobili, mi dissero, non erano mai soddisfatti ed erano così egoisti da volere ancor di più. Furono loro che dissero agli statunitensi e ad altri stranieri che avevano bisogno di “democrazia” e “libertà” senza riconoscere che si tratta di un sistema selvaggio, dove il pesce grande si mangia il piccolo, ma erano felici di queste parole”.

 

Due anni prima dell’invasione, nel 2009, Gheddafi sosteneva una proposta per l’integrazione economica e politica del nord dell’Africa. Con il sostegno di 140 tonnellate d’oro e più di 170 mila milioni di dollari in riserve, proponeva una nuova moneta africana che avrebbe portato un alto grado di indipendenza economica della regione, come chiariscono le comunicazioni declassificate dal Dipartimento di Stato 5 anni dopo.

La Libia mostrava un’economia solida, con abbondanti risorse liquide in banche internazionali e riserve naturali piuttosto considerevoli, la sua popolazione, come si diceva prima, godeva di uno stato sociale pieno.

Questo impedì la criminale invasione del 2011? No.

Le ragioni fondamentali del suo fallimento non furono economiche. Furono politiche. Negli ultimi anni Gheddafi (influenzato da politici locali al servizio di Europa e Stati Uniti) aveva deciso di avvicinarsi alle potenze finanziarie e corporative dell’Occidente.

 

Oggi la Libia non esiste come Stato-nazione. Un gran numero dei suoi abitanti sta morendo nel Mar Mediterraneo fuggendo dalla mattanza che ancor oggi commettono vari gruppi mercenari.

Le sue riserve petrolifere vengono saccheggiate vendute sul mercato senza alcun tipo di regolazione internazionale e le sue riserve di quasi 200 mila milioni di dollari sono misteriosamente sparite dai caveaux delle banche europee. L’oro con cui si proponevano di colpire il sistema finanziario artificiale, supportato dal dollaro, è stato anch’esso saccheggiato.

Non esiste nulla di paragonabile all’era di Gheddafi. La classe media che nel 2011 chiedeva democrazia e libertà oggi non esiste più, molti sono cadaveri prodotto dei danni collaterali dei bombardamenti. Altri, probabilmente, stanno lavorando in Germania o Francia, schiavi o padroni secondo la loro classe e il loro destino.

 

Termini e concetti tanto enunciati nel corso della storia come stato sociale, giustizia sociale, stato di diritto, democrazia diretta, buona gestione, efficienza, governabilità, stabilità, comfort, felicità sociale, gestione sociale, attenzione integrale, diritti umani e tanti altri, nel caso della Libia – per fare solo un esempio – non hanno impedito lo smantellamento del suo apparato di governo con la forza per due questioni fondamentali: 1) una parte della popolazione libica ha partecipato alle condizioni per la sua invasione; 2) la comunità internazionale ha completa libertà (e risorse militari e finanziarie) per strafregarsene di tutti e di ognuno di questi “risultati” e imporre i suoi piani, quali che siano, con qualsiasi metodo, in qualsiasi paese.

La ragione corporativa e finanziaria mondiale è accompagnata dall’obbligatorio esercizio della forza. L’apparato militare, oltre ad abbracciare il sistema politico, funziona da bombola di ossigeno per la indebolità dinamica capitalista. Afganistan, Iraq, Libia, Siria e secoli di storia lo dimostrano.

La brutalità delle circostanze in cui ognuna di queste operazioni e i loro contesti particolari si sono sviluppati lasciano aperte moltissime domande nel quadro della nostra propria realtà.

 

E’ vero che saldare quello che si chiama “debito sociale” garantisce la sostituzione della logica culturale che sostiene il capitalismo e i suoi apparati di dominazione? Dobbiamo dedicare completamente grandi risorse, sforzi e pin di tutto un paese a questa categoria astratta del “benessere sociale”? Prendiamo il potere per amministrare le strutture fondazionali del sistema capitalista? La ridistribuzione della ricchezza è il fine ultimo di una società che si prospetta di cambiare? Dopo aver redistibuito le ricchezze, cosa succede con le nuove ambizioni? Può un paese fondare una nuova società soddisfacendo le necessità infinite della vecchia?

 

Dal 1999 al 2016 la Rivoluzione Bolivariana è stata l’unico progetto politico che è riuscito, per la solidità del suo sforzo, a superare le condizioni di povertà ereditate da un intero secolo disaccheggio. I dati statistici sono, di fatto, pubblici. Nessun paese del pianeta, ad esempio, può prendersi il lusso di ostentare cifre come le nostre el settore delle abitazioni: 1 milione di case consegnate alla popolazione che più ne aveva bisogno. Lo stesso potremmo dire dei piani educativi, sulla salute, sull’alimentazione ecc. nella logica del pensiero tradizionale una crisi come quella attuale è incomprensibile.

 

Sembra necessario allora tornare alle domande di cui sopra. Sono riusciti a passare a gran parte di noi la teoria che dice che la guerra è solo un esercito contro un altro, bombe contro bombe e aerei che fischiano in aria. L’astrazione argomentativa della guerra economica è una realtà. Di fatto, è un errore aggiungerle l’estensione “economica”. La guerra è la guerra e si applica in tutto il suo significato. Come segnala El Cayapo (rivista venezuelana, n.d.t.) ogni guerra è nuova nel quadro del capitalismo. Percettiva. Ibrida, liquida, comunicazionale, mediatica, militare, di quarta generazione, finanziaria; è guerra ciò che succede, non solo in questo lato del pianeta.

 

La storia lo indica, ci sono esempi nuovi e vecchi a bizzeffe. La parola saggia cerca di dirci che non dobbiamo metterla in discussione, ripeterla più e più volte a prescindere dai risultati. Ma, davvero dobbiamo condannare il chavismo a ripetere la storia di centinaia di migliaia di popoli che cercarono di superare il sistema capitalista con la sua esatta logica culturale, sociale, politica? Perchè non ci prendiamo la posibilità di mettere in discussione le sue colonne vertebrali, le sue basi fondazionali?

Supereremo il disastro capitalista riproducendo con maggiore sforzo i suoi simboli riassunti nella “necessità”?

 

Costruiremo un’altra società senza toccare l’apparato e la logica di produzione del capitalismo e dei suoi modi di produzione? Se l’apparato di produzione di un sistema è quello che determina le relazioni sociali, e quindi le radici della sua cultura, allora perchè non fare uno sforzo e pensare, progettare, sperimentare un altro modo di produrre, un altro progetto del lavoro e quindi delle necessità?

 

Potremmo star girando attorno al cappio che prima o poi finirà sul collo collettivo. Non si può prendere male questa curva chiusu del momento e non stiamo proponendo discussioni responsabili e storiche. I risultati delle parole al ventonella lotta per il miglior slogan sterile sono visibili a tutti. Non aggiungono, non risolvono, non danno risultati, non mobilitano.

Il chavismo ha dimostrato, anche nella crisi esistenziale più grande degliu ltimi 100 anni, di avere un esercito di più di 5 milioni di persone disposte a cambiare, a discutere, a pensare, ad essere attive. Ma non è lo stesso proporsi di discutere sull’orologio di un ministro qualsiasi che proporsi di discutere come abbandonare l’apparato di produzione capitalistico e tutto il suo sistema culturale.

 

Se il chavismo è una forza storica deve proporsi discussioni e piani storici, adattarsi alla cronica infermità del presente è, èer lo meno, irresponsabile. La crisi dell’intero pianeta non è nostra responsabilità. Il disastro mondiale è da addebitarsi ai suoi creatori e al loro sistema in metastasi.

 

Questa non è una discussione per chi ha fretta; con o senza governo, con o senza potere, con o senza appoggio internazionale, la Rivoluzione continuerà. Dipende da noi decidere dove investire l’energia vitale, gli anni, lo sforzo.

Continuiamo a regalare tempo e ossigeno al sistema capitalista e alle sue corporazioni multinazionali o ci proponiamo si immergerci nel vuoto dell’altra discussione che per il moemento non esiste, grazie alla nevrosi economica ed al ricatto irresponsabile dei dogmatici.

 

Verranno enormi battaglie, non c’è dubbio, Ma faciamo lo sforzo, occupiamo il cervello per i grandi compiti; quelli piccoli lasciamoli alle persone che vivono di lamentele.

Il chavismo è per qualcosa di più grande.

 

(*) Giornalista venezuelano; da: misionverdad.com; 13.1.2016

 

(traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria “G. Tagarelli” Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

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