ISRAELE E L'INDUSTRIA DELLE ARMI

 

Alcuni motori dell’aggressione israeliana

 

di Charles-André Udry (*) 

 

L’aggressione dello Stato di Israele ha come obiettivo il popolo palestinese e i suoi diritti continuamente negati. Non si tratta di una “guerra contro Hamas”. Al di là dei massacri dei civili e della distruzione delle infrastrutture e delle case di Gaza, la repressione criminale della polizia israeliana e gli attaccchi dei coloni chiamati “estremisti” contro le numerose manifestazioni di massa dei palestinesi nella Cisgiordania occupata lo dimostrano. 

 

La guerra condotta da un esercito che pretende di definirsi “esercito di difesa”  rimonta a diversi fattori.

 

Tra questi ce ne sono due da sottolineare.

 

Su una catena televisiva in lingua francese – l24 news , espressione della “lobby ebrea” per riprendere la formula utilizzata da un giornalista di “Yediot Aharonot” in un dibattito con Serge Dumont, giornalista di Le Soir (Belgio) e Temps (Svizzera) su quel canale – emerge un argomento di autosoddisfazione che non veniva utilizzato tanto apertamente dal 2009.

 

Si insiste su un dato: l’industria degli armamenti, nelle sue diverse componenti, rappresenta un montante di esportazioni per 7,5 miliardi di euro all’interno dell’economia di Israele. Nel 2013 queste raggiungono il 3% delle esportazioni di armi nel mondo.

 

Quindi, come afferma con superbia ‘Le Monde Juif.info’ del 27 luglio 2014 prendendo i dati di, The Economist,  Israele si trova nelle “top 10” degli esportatori di armi.

 

Nel dibattito su “l24 News”, il 26 luglio 2014, un “esperto” della materia ha esposto un argomento completamente realista: i progressi delle esportazioni di armi sono legati alla crescente sofisticazione dei diversi tipi di produzione militare. Quindi questo dominio tecnologico è direttamente legato – per riprendere la formula utilizzata da questo specialista – “agli effetti derivati dalle guerre condotte e dall’esperienza accumulata”.

 

Il che implica che ogni operazione – da “Piombo Fuso” a “Margine di Protezione” – finisce per rafforzare l’industria degli armamenti che gioca, in tutte le sue ramificazioni – un ruolo importante nel sistema produttivo israeliano. 

 

L’esperto in armamenti che è intervenuto a “l24 News” aggiungeva che, in termini di armi, questa progressione aumentava l’autonimia di Israele in relazione ai “più grandi”. Si sottintende gli Stati Uniti.

 

Il che implica rafforzare il margine di manovra  del governo nei “negoziati” con l’alleato statunitense, ancora tanto fedele. La virulenza contro il “piano di tregua Kerry”  (1) – propria dei politici  e dei diplomatici dell’ultra destra governativa, che lo definiscono “filo-Hamas” - è l’espressione attuale di quanto detto.  

 

A suo modo, questa retorica segue le orme dei “successi militari” della cosiddetta operazione “Margine Protettore” e della incensata “Cupola di ferro”, che neutralizza “la quasi totalità” (in realtà una minima parte) dei missili di Hamas. Questa “cupola” è esportabile – almeno in parte – verso diversi paesi.

 

E, seguendo le orme del dittatore Abdel Fattah al Sisi contro i Fratelli Musulmani, gli omaggi che gli tributa il governo Netanyahu non si devono solo alla distruzione dei cosiddetti “tunnels di Hamas” alla frontiera egiziana e agli sforzi diplomatici che sembrano di segno opposto rispetto a quelli di Kerry.

 

Il potere economico dei militari egiziani costituisce un mercato in crescita per le armi israeliane.  La Camera di Commercio Francia-Israele (CCFI) segnalava nel giugno 2014 che le consegne di materiale elettronico erano un fatto consolidato dal 2010. Con al Sisi possono ricominciare (2). 

 

In realtà c’è un complesso militare-industriale nordamericano-israeliano. Tra i marchi israeliani – dove la congiunzione con lo Stato ed il Ministero della Difesa gioca evidentemente un ruolo rilevante – possiamo citare i seguenti: Elbit Systems, Israel Aerospace Industries (IAI), Israel Military Industries (IMI), Israel Weapon Industrie (IWI) e Rafael Advanced Defense Systems, che è la creatrice della “Cupola di ferro”. Alcuni di questi marchi hanno una presenza internazionale, come Elbit o IWI. Ma un marchio statunitense come Raytheon, le cui vendite nette – solo durante il secondo trimestre del 2014 – si attestano sui 5,7 miliardi di dollari, costituisce un anello significativo di questo complesso. 

 

Guerra e accumulazione di capitale si uniscono per spingere, con regolarità, un insieme di inziative che vanno dalla guerra a bassa intensità legata all’occupazione, alla “vigilanza” regionale e agli interventi puntuali (ad esempio in Siria), fino alle guerre di aggressione contro la “banda di Gaza”. O anche le campagne di minacce proferite contro l’Iran. Queste ultime servono anche a gonfiare i libri degli ordinativi delle imprese israeliane e statunitensi. In questo il doppio complesso militar-industriale funziona meglio delle centrifughe iraniane. 

 

Questo pilastro dell’economia incontra un prolungamento politico-ideologico: lo Stato di guerra e le guerre – che fanno eco allo statuto di Stato colonialista con la sua punta di lancia: i coloni e le colonie – permettono di frenare, se non di impedire totalmente, l’espressione delle varie differenziazioni che attraversano la società israeliana. In effetti, alle diverse discriminazioni di “status” si agggiunge un forte impoverimento che risale a relazioni sociali polarizzate dalle “riforme” neoliberiste.

 

Secondo l’Ufficio Centrale di Statistica, il 13,7% delle famiglie israeliane in cui lavora un solo componente sono al di sotto della soglia di povertà (Le Monde, 12.7.2014). 

 

Una delle risposte di coloro che dominano – a grandi linee, i membri dell’apparato militare in senso lato e le loro propaggini politiche, così come quei 100 più ricchi la cui fortuna accumulata equivale a quella di 850.000 “israeliani ordinari” (Le Monde, 12.7.2014) – risiede nelle “operazioni di guerra” e nell’esacerbazione della tematica del “terrorismo”. Quest’ultima viene assimilata al palestinese e all’arabo. 

 

Al mantra “il popolo di Israele deve essere unito contro gli attacchi terroristici”, va aggiunto un razzismo dall’alto che continua a rafforzarsi. La scenificazione, pochi giorni fa, dei funerali di un soldato di origine falasha – termine che significa “esiliato in aramaico, con una connotazione negativa .... come di fatto, il suo “interramento” discriminatorio  in “terra santa” – rivela, al contrario, quelle scissioni accumulative proprie delle relazioni sociali che minano questa società capitalistica e colonialista controllata dallo Stato sionista.

 

Uno Stato in cui, in diverse modalità, prende una forma più concreta – al di là delle presunte cause ideologico/teleologiche – l’incarcerazione/esplusione dei palestinesi.

 

 

 

Note:

 

(1) The Times of Israel (versione francese) del 27.7.2014 scrive, a firma di David Horovitz, fondatore del Times of  Israel e precedentemente redattore capo del Jerusalem Post e del Jerusalem Report: “Contrariamente alla sua affermazione nella conferenza stampa al Cairo secondo cui la sua proposta di cessate il fuoco era stata ‘costruita’ sull’iniziativa egiziana, manifestamente non vi è nulla di questo. Avi Issacharoff ha informato, da altre fonti, che si trattava di una proposta che, per citare un anonimo responsabile di seconda catena, ‘voleva circuitare l’iniziativa egiziana’, una proposta che sembra essere stata redatta da Khaled Meshaal.

 

E Kerry non si è fermato qui. Dopo il fisca del venerdì è volato a Parigi e, fatto straordinario, ha intrapreso nuove consultazionicon paesi che sono apertamente contro Israele. Si è riunito con i suoi omologhi turchi, che hanno recentemente accusato israele di genocidio a Gaza e paragonato Netanyahu con Hitler, e anche con il Qatar, principale fornitore di denaro di Hamas, accusato direttamente dal presidente Simon Peres la scosa settimana di finanziare i suoi tunnel e i suoi razzi. Incredibilmente Kerry non ha invitato nè Israele, nè l’Egitto nè l’Autorità palestinese a queste sessioni parigine.

 

Netanyahu e i suoi colleghi non hano annunciato ufficialmente il loro rifiuto unanime della proposta di cessate il fuoco di Kerry per evitare di provocare un confronto diplomatico pubblico con il più importante alleato di Israele.Sembre comunque strano che quella che è una grande crisi tra Israele e gli USA cada in un momento in cui Israele si trova nel mezzo di una guerra cimplessa e costosa. Quando Hillary Clinton si inserì nel tentativo di negoziati per mettere fine all’operazione “Pilastro di difesa” del novembre 2012, era evidente che, oltre che il cessate il fuoco era a portata di mano, il lavoro diplomatico era coordinato con Gerusalemme e gli interessi vitali di israele venivano tenuti in conto. Questo offre una fiammante testimonianza dell’incompetenza di Kerry e mostra l’abbassamento della fiducia tra israele e America.

 

Che sia per incompetenza, per cattiva volontà o per tutte e due, l’intervento di Kerry non ha costituito un aiuto per assicurare la protezione di un alleato chiave per un paese amico. Si tratta di un tradimento.”.

 

2) Secondo Slate (Copyrights): “nel corso degli ultimi cinque anni, Israele ha esportato materiale di sicurezza verso il Pakistan e verso 4 paesi arabi: Egitto, Algeria, Emirati Arabi Uniti e Marocco. Il quotidiano Haaretz fa una lista completa dell’equipaggiamento esportato: nel 2010  Israele chiese n permesso per fornire a Egitto e Marocco sistemi elettronici di guerra” (12.6.2014).  

 

(*) Economista e professore universitario svizzero, membro del Movimento per il Socialismo della (MPS Svizzera) e di ATTAC. da:lahaine.org; 31.7.2014 

 

(traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

 

Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni). 

Scrivi commento

Commenti: 0

News