FASCISTI, MERCENARI E GOLPISTI

 

Dall’Ucraina al Venezuela: mercenari e golpisti

 

di Higinio Polo (*)

 

Uno dei tratti che appare con frequenza in diversi paesi è la nascita di movimenti di protesta che, a differenza di quelli di cui storicamente era protagonista la sinistra, esigono ora, insieme a confusi reclami di libertà e di onorabilità delle istituzioni e nella vita pubblica, un avvicinamento all’Unione Europea o all’ “Occidente”, identificato oscuramente con gli Stati Uniti. Queste peculiari ribellioni coesistono con altre che rispondono al tradizionale atteggiamento dei movimenti popoplari, benchè il suo carattere sia cambiato come anche molti dei suoi protagonisti.

 

Alcune di queste culminano in colpi di Stato e rovesciamento di governi. Il ricorso ai colpi di Stato non è nuovo, ma lo è invece la forma del cambiamento del governo: sanguinosi colpi di forza convenzionali, di cui erano protagonisti i militari come quelli del Cile con Pinochet, dell’Argentina con Videla e tanti altri simili, così poco presentabili e che smentivano recisamente il presunto appoggio degli Stati Uniti e dei loro soci alla libertà e alla democrazia, sembrano lasciare il passo a provocazioni, colpi di Stato mascherati da rivolte popolari: l’Ucraina è il loro modello più di successo fino ad oggi.

 

Queste provocazioni sono state organizzate in Serbia, Georgia, Moldavia; Bielorussia, Ucraina, Kirghisistan, Venezuela, come in altri paesi, e si sono incoraggiati movimenti di protesta in Russia (che non hanno nulla a che vedere con le richieste della sinistra), a Cuba, in Venezuela, in regioni della Cina con movimenti nazionalisti come lo Xinjang e il Tibet, sempre con diversa fortuna, ricorrendo al finanziamento di forze interne, all’intervento di organismi occidentali e a ONG quasi sempre dell’orbita nordamericana, e alla stimolazione di movimenti di opposizione da parte dei servizi segreti e della diplomazia.

 

Che Washington (e alcuni dei suoi soci: Polonia, Francia, Arabia ecc.) intervenga concretamente in un paese non significa che non esistano motivi di agitazione e di insoddisfazione a volte, anche, giustificati. Gli Stati Uniti e alcuni dei loro alleati non creano dal niente i movimenti di protesta: agiscono sempre su un fermento di sfiducia, di stanchezza ma sviluppano e finanziano quelle proteste come un fattore in più della loro politica estera.

 

Così la cosiddetta “rivoluzione twitter” in Moldavia nell’aprile 2009 ebbe origine nelle proteste per la vittoria del Partito Comunista alle elezioni, una vittoria pulita ma non accettata dall’elettorato di destra (che arrivò ad assaltare e incendiare il parlamento), frustrato per quello che considerava un allontanamento dalla sua desiderata prospettivadi unione con la Romania e di ingresso nell’Unione Europea, che reclamò la ripetizione delle elezioni. A sua volta in Ucraina la stanchezza popolare per la corruzione del governo di Yanukovich era reale (una corruzione simile, d’altra parte, a quella prodottasi con i governi “arancioni” di Yushenko e Timoshenko, ora di nuovo al potere), così come la partecipazione alle proteste di alcuni settori che non si identificavano con il nazionalismo fascista di Svoboda o di Pravy Sektor, ma che erano più vicini ad una vafga sinistra ... nonostate abbia finito pre prevalere la brutalità nazi e fascista che ora pattuglia le strade di Kiev. 

 

Il colpo di Stato in Ucraina, che i grandi mezzi di comunicazione internazionali stanno trasformando nella “invasione della Crimea”, è la falla più preoccupante di quante ne appaiono oggi sullo scenario politico internazionale. L’Unione Europea e gli Stati Uniti non solo hanno appoggiato un colpo di Stato, ma hanno partecipato alla sua gestazione. I franchi tiratori che assassinavano i poliziotti e i manifestanti sono stati arruolati dall’opposizione, come ora sappiamo, dopo aver commosso il mondo attribuendo la responsabilità al deposto Yanukovich.

 

Non è la prima provocazione, nè sarà l’ultima, alla periferia russa. Nel gennaio 1991 a Vilna, Ucraina, ancora teritorio sovietico, una mattanza di quattordici persone davanti alla torre della televisione commosse il mondo e tutta la stampa accusò l’esercito sovietico e il governo di Mosca. Oggi sappiamo che si trattò di una mattanza provocata dai nazionalisti del Sajudis e dallo stesso governo lituano per accusare l’Unione Sovietica e, tra dolore e commozione, precipitare l’indipendenza (si veda l’intervista a Audrius Butkevicius, responsabile militare dell’allora governo lituano, in cui egli riconosce la paternità della provocazione).

 

Le prove sui franchi tiratori sospetti sono state ignorate, e nè l’Unione Europea nè gli Stati Uniti (meno ancora il governo golpista di Yatseniuk) esigono l’apertura di un’inchiesta.

 

L’arrivo di ministri di estrema destra nel governo ucraino, e la persecuzione politica di coloro che sono accusati di essere “seguaci della Russia”, con assassinii e roghi delle case delgi oppositori dovrebbe allarmare tutto il continente; non a caso dirigenti fascisti come Andrei Parubii controllano l’esercito, la polizia e i servizi segreti. Alexander Yakimenko. Responsabile dei servizi di sicurezza sotto il presidente rovesciato Yanukovic, egli ha rivelato che l’azione dei franchi tiratori che diedero vita ad una mattanza di manifestanti e poliziotti il 20 febbraio è stata una provocazione organizzata dal “comandante” di Maidan, Andrei Parubii, in coordinazione con l’ambasciata americana. Parubii è un veterano organizzatore di milizie fasciste e di gruppi neonazisti. Gli spari vennero dall’edificio della Filarmonica di Kiev che era controllato da uomini armati dipendenti da Parubii. Altri franchi tiratori ai suoi ordini erano appostati all’Hotel Kiev. L’edificio dell’hotel domina tutta la piazza Maidan, e l’edificio della Filarmonica si trova alla sua destra, nella vicina piazza Yevropeis’ka. Di fatto le parole di Yakimenko confermano la conversazione filtrata tra il ministro degli Esteri estone, Urmas Paet, e Catherine Ashton, in cui incolpavano l’opposizione di aver assoldato i mercenari franco-tiratori che hanno causato la strage. Il nuovo governo golpista ucraino ha nominato Parubii segretario alla Sicurezza Nazionale, posto da cui controlla il Ministero della Difesa e le forze armate.

 

I servizi segreti nordamericani, d’accordo con la Polonia e in campi di addestramento polacchi, lettoni e lituani, hanno organizzato la logistica per dare impulso al colpo di Stato in Ucraina. Il generoso finanziamento della rivolta è arrivato dai paesi europei, dagli Stati Uniti e dagli oligarchi ucraini. Una lunga intromissione negli affari interni ucraini, attraverso le ONG, agenzie nordamericane e il finanziamento di gruppi violenti apertamente fascisti e nazisti, sono confluiti in Maidan.

 

La provocazione e la crisi hanno forzato gli accordi tra Yanukovich e l’opposizione, suggeriti dai ministri degli Esteri di Germania, Polonia e Francia ... accordi che sono stati ignorati immediatamente dai teppisti di Maidan, diretti dall’ambasciata nordamericana. La passività dell’esercito, e la ritirata della polizia in applicazione degli accordi, hanno lasciato senza difesa il governo di Yanukovich, che ha assistito impotente all’occupazione del parlamento e degli edifici del governo da parte dei gruppi armati fascisti. Così il colpo di Stato ha trionfato.

 

Della stoffa dei nuovi dirigenti di Kiev parla con eloquenza la conversazione filtrata di Timoshenko, dove dice: “Bisogna prendere le armi e ammazzare i maledetti russi”.

 

Lo sbarco del FMI comincia già a farsi notare: 25.000 funzionari saranno licenziati, le tasse aumenteranno tanto quanto le misure di austerità e i tagli sociali, che verranno immediatamente approvati, e i soldati nordamericani e della NATO potranno entrare in Ucraina.

 

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L’Ucraina è una pedina importante della scacchiera internazionale, ma ce ne sono altre, nella complessa disputa per gli ambiti di influenza. Gli Stati Uniti, con l’opportunistica politica estera che stanno sviluppando, sempre in cerca di vantaggi, sono riusciti a trasformare per il grande pubblico il colpo di Stato ucraino nella “crisi di Crimea”, dove hanno guardato impotenti il fallimento del loro ambizioso proposito (non nascosto, ma poco evidente) di sloggiare l’Armata russa da Sebastopoli, privandola così di buona parte della sua capacità di manovra e rendendole difficile l’accesso al mar Mediterraneo. 

 

Le relazioni tese tra Washington e Mosca non escludono il negoziato e la possibilità di accordi in altri scenari. Così succede  in Afganistan, con la ritirata delle forze nordamericane, dopo più di un decennio di occupazione che lasciano un paese distrutto che può finire in una situazione fuori controllo, nell’aumento dell’instabilità del paese e di buona parte dell’Asia centrale. Le elezioni presidenziale del 2014 non cambieranno in sostanza i rischi che il paese affronta: la ritirata nordamericana, dopo l’accordo sulla sicurezza raggiunto tra Karzai e gli USA, non garantisce l’inizio di un dopoguerra pacifico: nè tutti i talebani sono d’accordo a negoziare con Karzai nè le forze addestrate da Washington, che si faranno carico della sicurezza del paese, possono assicurare il controllo su tutto il teritorio. Karzai cerca garanzie nordamericane per evitare il vortice dell’inizio di nuovi scontri aperti con gli islamisti; a sua volta Washington pretende di mantenere un governo cliente (anche se Karzai persegue i suoi propri fini ed è pressato dalla situazioen interna) che salvaguardi i suoi interessi e che i talebani non rinuncino a recuperare il potere. L’ipotesi di negoziati di pace tra il governo Karzai e i talebani per una spartizione del governo e del territorio non può essere scartata. La Russia e la Cina temono una maggiore destabilizzazione del territorio e l’espansione dell’islamismo radicale. Gli Stati Uniti, che hanno giocato il ruolo di apprendisti stregoni spingendo il fanatismo islamista, non vogliono assumersi responsabilità. 

 

In Siria, dove la guerra civile ha distrutto buona parte del paese, Washington ricerca il rovesciamento di Bashar al-Assad, la rottura dell’alleanza sirio-iraniana che influisce sull’Iraq, sul Libano e su minoranze del Medio Oriente e la resa dell’ultimo alleato di Mosca nella zona. Anche qui gli USA hanno fatto ricorso al finanziamento di gruppi terroristici, che si sono aggiunti alle iniziali proteste pacifiche, che erano una mescolanza di richieste civiche e economiche, e di gruppi diretti e finanziati dai servizi segreti occidentali. La trasformazione di proteste pacifiche linitate in gruppi armati e insorti finanziati dall’estero (Arabia, Qatar, Stati Uniti) e addestrati in Turchia, Arabia e Giordania è culminata nella sanguinosa guerra civile della quale Washington non riconosce alcuna responsabilità.

 

La possibilità di un intervento diretto statunitense non può essere ancora scartata. Di fatto gli Stati Uniti (insieme alla Francia) sono stati sul punto di attacare la Siria nell’estate 2013, attacco che si fermò grazie all’abilità diplomatica russa e all’apertura di uno scenario di negoziati a Ginevra che, nonostante il suo incerto futuro, Washignton non poteva ignorare. La distruzione dell’arsenale chimico siriano accettata da Damasco, e il giro di discussioni a Ginevra, è stata accompagnata dal retrocedere delle forze islamiste e dell’insieme appoggiato dall’Occidente e da alcuni paesi arabi. L’esercito siriano sta cominciando a controllare la situazione, anche se nulla è irreversibile: Bashar al-Assad affronta gruppi fanaciti di islamisti, gli USA non rinunciano al suo rovesciamento o, almeno, al suo ritiro patteggiato. 

 

L’Iran concentra su di sè buona parte delle preoccupazioni di Washington. I negoziati aperti con Teheran, che hanno fatto affiorare differenze tra Stati Uniti da una parte e Israele e Arabia Saudita dall’altra, dipendono dall’evoluzione della guerra civile in Siria, dalla definizione di obiettivi da parte di Washington (con criteri diversi tra il Pentagono e il Dipartimento di Stato), dagli equilibri interni tra Alì Kamenei e Hassan Rouhani, e dall’atteggiamento di Russia e Cina. Senza dubbio Mosca, che mantiene buone relazioni con Teheran, terrà conto dell’opportunistica politica nordamericana che, in Ucraina, non ha tenuto in alcun conto gli interessi russi. Allo stesso tempo l’Arabia, discreto e potente attore regionale, è afflitta dall’abbandono di Mubarak da parte USA: la rivolta egiziana ha colto di sorpresa Washington, che non ha avuto esitazioni a prendere le distanze dal dittatore che aveva appoggiato per anni ... per prendere posizione sul nuovo scenario: ci è riuscita, e il prevedibile arrivo al potere del generale Abdul Fatah al-Sisi ricompone la sua influenza in Egitto.

 

L’Arabia non ha fiducia nei risultati di negoziati incerti con l’Iran, e mantiene il suo rifiuto dell’emergenza iraniana nella zona, tratto che la avvicina a Israele, la cui attenzione è sempre centrata sull’oppressione del popolo palestinese e nel contenimento di Teheran.

 

In Iraq l’occupazione militare nordamericana, la guerra e la distruzione del paese hanno causato più di un milione e mezzo di morti, e milioni di rifugiati. Gli Stati Uniti hanno utilizzato armamento proibito: dall’agente orange all’uranio impoverito, violando le convenzioni internazionali. Il governo imposto di al-Maliki continua le pratiche nordamericane dei bombardamenti sulla popolazione civile, ma la situazione, con costanti proteste popolari, è volatile e uno dei paradossi di un decennio di occupazione militare nordamericana è il rafforzamento dell’influenza iraniana nel paese.  

 

In tutto questo grande arco che va dall’Afganistan alla Siria, passando per l’Iran e l’Iraq, gli Stati Uniti hanno bisogno della buona volontà di Mosca e della sua collaborazione per il passaggio di truppe e materiali da guerra, come illustrano le facilitazioni concesse dal governo russo alla NATO a Ulianovsk, vicino al Kazakistan. 

 

La Cina, un altro importante protagonista, ha mantenuto una posizione dscreta davanti alla crisi ucraina, preoccupata dell’intromissione nordamericana negli affari interni di altri paesi, ma anche per l’apparizione di nuove frontiere, con il seguito di scontri e instabilità internazionale che vuole evitare ad ogni costo, anche se questo non impedisce che tracci le sue proprie linee rosse.

 

Washington cerca di fermare il rafforzamento cinese, e disegna un nuovo equilibrio nella grande regione Asia-Pacifico che, per amore o per forza, non può ignorare la Cina. La politica di Washington passa per il rafforzamento della sua alleanza con il Giappone, la Corea del Sud e le Filippine, mentre prosegue con la sua strategia, non meno decisa per quanto cauta, di avvicinamento a India, Birmania e Vietnam, con l’obiettivo di unirli in un fronte anti-cinese e fa pressione nella penisola coreana con successive esercitazioni militari congiunte con Seul, che non contribuiscono alla stabilità e aumentano l’incertezza.

 

Tuttavia i suoi alleati hanno la loro propria agenda e i loro interessi: anche il docile Giappone affila il suo nazionalismo, provoca la Cina a Yasukuni e scommette sul rafforzamento el suo esercito e su una riforma costituzionale che chiuderebbe con il periodo aperto con la fine della II Guerra Mondiale. Washington sostiene il Giappone ma controlla i suoi movimenti perchè la preoccupa la possibilità che una poco calcolata scommessa gapponese danneggi la sua pianificazione strategica e i suoi interessi in Asia, mentre rafforza il suo dispositivo militare nella zona e manovra perchè il dollaro continui ad avere la sua funzione di moneta di riserva e di interscambio internazionale a fronte del raffrozamento economico dell’Asia orientale e della moneta cinese. 

 

L’America Latina continua ad essere uno scenario secondario per le grandi potenze, anche se dall’esito definitivo della rivoluzione bolivariana in Venezuela discenderebbero molte conseguenze per il resto del continente e per il mondo. In Venezuela, in maniela simile a come hanno fatto in Ucraina, gli USA spingono una politica di minaccia contro il governo Maduro e hanno diverse agenzie che collaborano con l’opposizione venezuelana: la USAID, la CIA, la NSA o la NED, National Endowment for Democracy.

 

Washington ha già collaborato nel colpo di Stato del 2002 quando, dopo l’arresto di Chàvez, aveva preteso di imporre l’effimero Carmona. Ora lo fa non solo finanziando campagne, ma consigliando l’opposizione, spingendo una strategia controllata di tensione nelle piazze e di stimolo della ribellione tra i militari, dove Maduro non ha la stessa influenza che aveva Chàvez. Un aspetto della strategia di minaccia e del dominio dell’agenda politica internazionale è la disinformazione, che offre attraverso la sua potente stampa una visione distorta del paese, che viene presentato come una dittatura nonostante che il chavismo abbia vinto in modo limpido tutte le elezioni convocate nell’ultimo decennio.

 

La politica nordamericana opera su una parte della popolazione che rifiuta la rivoluzione bolivariana, mentre la scalata di violenza nel  paese favorisce la presentazione internazionale di un quadro di crisi acuta e spinge i settori che, a fronte delle vittorie elettorali chaviste, speculano su un colpo di Stato capace di sloggiare Maduro dal governo.

 

Gli Stati Uniti perseguono la disarticolazione dell’asse latinoamericano tracciato attorno a Cuba e al Venezuela, scommettono sulla stimolazione delle proteste civili in quei paesi, sull’approfondimento della scarsità di prodotti alimentari e di prima necessità grazie alla loro collaborazione con settori imprenditoriali legati all’opposizione di destra venezuelana, con l’intenzione di acutizzare la crisi in uno scenario dove non si scarta neppure l’ipotesi di un colpo di forza. Gli obiettivi sono tre: la distruzione della rivoluzione bolivariana, una nuova sconfitta della sinistra latinoamericana articolata ttorno all’asse Caracas-l’Avana e il controllo del petrolio venezuelano. La Bolivia ha un’importanza marginale nelo scenario strategico americano, anche se, insieme all’Ecuador e al Nicaragua, alleati di Cuba e Venezuela, entrano anch’esi nella pianificazione destabilizzatrice di Washington. 

 

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Dopo il fallimento delle avventure militari in Afganistan e in Iraq, che non hanno risolto alcuno dei problemi della zona (nè il terrorismo, nè il narcotraffico, nè l’instabilità politica e militare, nè hanno fatto avanzare la libertà, i diritti delle donne o le istituzioni democratiche, come tante volte hanno proclamato i pubblicisti nordamericani), il governo statunitense ha deciso di utilizzare con più misura  le sue forze militari, anche senza rinunciare ad esse, e di promuovere i suoi obiettivi politici con altri mezzi: pressioni diplomatiche, ricatto di Stato, azioni mercenarie, provocazioni, colpi di Stato. Per conseguire i suoi fini, il governo nordamericano non ha la minima remora a mentire. Anche lo stesso Obama ha mentito quando, durante la sua visita a Bruxelles di fine marzo 2014, ha affermato che il Kossovo aveva acquisito l’indipendenza attraverso un referendum su cui ci si era accordati tra i paesi interessati e l’ONU; referendum che mai ha avuto luogo, visto che la secessione della provincia serba è stata dovuta ad un pronunciamento unilaterale del governo e del parlamento kossovaro, preceduta dai bombardamenti della NATO sui resti della Yugoslavia, senza l’autorizzazione dell’ONU.

 

La retorica libertaria di Washington nasconde un’azione che - nonostante non sia nota - non è meno pericolosa per la pace e la stabilità internazionali. L’utilizzo di droni per effettuare assassinii selettivi e bombardamenti sulla popolazione civile, il ricorso allo spionaggio, le intercettazioni illegali, il finanziamento di gruppi armati che possono favorire i suoi interessi all’interno di una concezione di “guerra non convenzionale”, presiedono a molti dei progetti del Pentagono e della Casa Bianca. Le loro forze di operazioni speciali, e i suoi gruppi di commandos, continueranno ad essere strumento della politica estera nordamericana, come dimostra l’attività dello United States Special Operations Command, commando di operazioni speciali con base in Florida, che agisce in diverse parti del mondo.

 

Resta peculiare che un paese come gli Stati Uniti, che mantiene un campo di concentramento illegale come Guantànamo, che ha organizzato una rete militare clandestina per il sequestro di persone in varie parti del mondo, che ha promosso la creazione di carceri segrete in paesi come Polonia, Romania, Lettonia, Repubblica Ceca, Egitto, Algeria, Thailandia, Afganistan, Pakistan, Libia, Marocco, in connivenza con i governi di quei paesi; che ha consegnato prigionieri ad altri paesi perchè fossero interrogati e torturati; un paese che ha una kill list segreta, che firma il presidente Obama, per compiere esecuzioni di persone in qualsiasi luogo del pianeta senza alcun controllo giudiziario; un paese che ha organizzato una rete di spionaggio mondiale, rivelata da Snowden;  che vulnera le leggi internazionali ed i diritti umani, e che ha violato la risoluzione dell’ONU sulla Libia per assassinare Gheddafi, come precedentemente aveva invaso l’Afganista e l’Iraq; che un paese così si attribuisca la funzione di severo giudice planetario sulla libertà e i comportamenti democratici è, quanto meno, sorprendente. 

 

Nel complesso scenario internazionale, non si possono scartare accordi parziali, dovuti agli obiettivi di lungo periodo. Così Washington, senza rinunciare ad utilizzare tutte le sue risorse, continuerà il suo avvicinamento all’Iran, anche se questo danneggia le sue relazioni con Israele e con l’Arabia; vuole arrivare a patti per la Siria, senza cedere alla sua esigenza dell’uscita di scena di Bashar al-Assad e continuerà impassibile davanti alla sofferenza palestinese senza aumentare la sua pressione suTel Aviv e senza fare una scommessa seria sulla creazione di due Stati alle frontiere della Palestina storica. 

 

Gli Stati Uniti sono disposti ad arrivare ad un accordo diplomatico in Ucraina accettando l’incorporazione della Crimea alla Russia ma senza rinunciare all’espansione della NATO, per conseguire a medio periodo l’avvicinamento di Kiev all’Unione Europea e la rottura definitiva dei suoi legami con Mosca, senza transigere con la federalizzazione del paese nè con il rispetto degli interessi russi. In Venezuela, al contrario, gli Stati Uniti continuano a spingere una politica aggressiva che ha un solo obiettivo: il rovesciamento del chavismo e la sconfitta della rivoluzione bolivariana, mentre osservano i movimenti di Raùl castro e le nuove opzioni aperte dal governo cubano, coscienti del fallimento della loro vecchia politica del blocco. 

 

La crisi ucraina non è stata cominciata da Mosca. Ora il governo golpista ucraino, gli Stati Uniti e l’Unione Europea non vogliono nemmeno sentir parlare dela creazione di una commissione internazionale che investighi sugli assassinii per mano dei franchi tiratori di Kiev. Così se la marmaglia nazista può impunemente sfilare a Kiev e in altre città ucraine, non meraviglia nemmeno che veterani nazisti delle Waffen-SS sfilino a Riga, protetti dai ministri del governo lettone, come hanno fatto nel marzo 2014.

 

La responsabilità dell’Unione Europea e degli Stati Uniti nell’aver reso possibile l’arivo di ministri apertamente fascisti al governo di un paese europeo è evidente, così come l’aver fornito copertura diplomatico e successivo appoggio ad un governo golpista, ma nè le denunce giornalistiche nè il ricorso alle istituzioni internazionali faranno sì che Washington rinunci all’utilizzo di compagnie di mercenari, gruppi terroristici e colpi di Stato patrocinati da “movimenti democratici”. 

 

La retorica nordamericana ed europea sulla libertà e la democrazia sono solo una trappola per incauti, per quanto queste idee siano anche una giusta e onorevole aspirazione per la maggioranza dell’umanità.

 

La politica internazionale nonn  si spiega con le teorie della cospirazione, ma con brutali interessi nazionali che, a volte, si difendono con mercenari e golpisti.

 

Washington ha fra i suoi obiettivi l’ampliamento militare della NATO a Est, il controllo dei flussi di idrocarburi e la ricerca di mercati e opportunità di affari per le sue multinazionali, senza dimenticare che non ha rinunciato alla spartizione della stessa Russia.

 

Dall’Ucraina al Venezuela i mercenari preparano mezzi e arsenali, e il Dipartimento di Stato muove le pedine sulla scacchiera.

 

 

(*) Docente di Storia Contemporanea dell’Università di Barcellona, saggista e scrittore.

da: lahaine.org; 4.6.2014  

 

(traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

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