GABO: RICORDO DI SALVADOR ALLENDE

 

La vera morte di un presidente

di Gabriel Garcìa Màrquez

 

 

 

Articolo scritto nel settembre 2003, 30° anniversario del golpe militare in Cile

 

 La contraddizione più drammatica della sua vita fu di essere, allo stesso tempo, nemico congenito della violenza e rivoluzionario appassionato, e lui credeva di averla risolta con l’ipotesi che le condizioni del Cile permettevano un’evoluzione pacifica verso il socialismo all’interno della legalità borghese.

L’esperienza gli insegnò, troppo tardi, che un sistema non si può cambiare dal governo, ma dal potere.

Averlo scoperto troppo tardi dovette esser la forza che lo spinse a resistere fino alla morte tra le macerie in fiamme di una casa che non era neppure la sua, un palazzo oscuro che un architetto italiano costruì come fabbrica di denaro e che finì per trasformarsi nel rifugio di un Presidente senza potere.

Resistette per sei ore con una mitraglietta che gli aveva regalato Fidel Castro e che fu la prima arma da fuoco con cui Salvador Allende sparò mai.

 

 

Il giornalista Augusto Olivares, che resistette al suo fianco fino alla fine, fu ferito varie volte e morì dissanguandosi in un pronto soccorso pubblico.

 

Verso le quattro della mattina il generale di divisione Javier Palacios riuscì ad arrivare fino alsecondo piano, con il suo aiutante capitano Gallardo e un gruppo di ufficiali, là, tra le poltrone falso Luigi XV e le fioriere di dragoni cinesi e i quadri di Rugendas del salone rosso, Salvador Allende li stava aspettando.

 

Aveva sulla testa un casco da minatore ed era in maniche di camicia, senza cravatta e coi vestiti sporchi di sangue. Teneva in mano la mitraglietta. 

 

Allende conosceva il generale Palacios. Pochi giorni prima aveva detto ad Augusto Olivares che quello era un uomo pericoloso, che teneva stretti contati con l’ambasciata degli USA. Come lo vide apparire sulla scala, Allende gli gridò: traditore e lo ferì alla mano.

 

Allende morì nello scambio di colpi con quella pattuglia. Poi tutti gli ufficiali, in un rito di casta, spararono al corpo e l’ultimo gli spaccò il volto con il calcio del fucile. 

 

La foto esiste: la scattò il fotografo Juan Enrique Lira, del quotidiano El Mercurio, l’unico a cui si permise di ritrarre il cadavere. Era così sfigurato che alla Signora Hortensia Allende, sua moglie, mostrarono il corpo nella bara, ma non le permisero di scoprire il viso. 

 

Aveva compiuto 64 anni nel luglio precedente ed era un perfetto Leone: tenace, deciso e imprevedibile.

 

Quello che pensa Allende, lo sa solo Allende – mi aveva detto uno dei suoi ministri. Amava la vita, amava i fiori e i cani ed aveva una galanteria un po’ antiquata, con bigliettini profumati e incontri furtivi. 

 

La sua più grande virtù fu la coerenza, ma il destino gli riservò la strana e tragica grandezza di morire difendendo con le pallottole lo sgorbio anacronistico del diritto borghese, difendendo una Corte Suprema di Giustizia che lo aveva ripudiato e che doveva legittimare i suoi assassini, difendendo un Congresso miserabile che lo aveva dichiarato illeggittimo ma che doveva soccombere compiaciuto davanti alla volontà degli usurpatori, difendendo la volontà dei partiti dell’opposizione che avevano venduto l’anima al fascismo, difendendo tutta la parafernalia bacata di un sistema di merda che egli si era proposto di distruggere senza sparare una pallottola. 

 

Il dramma successe in Cile, per il male dei cileni, ma deve passare alla storia come qualcosa che è successo, senza rimedio, a tutti gli uomini di questo tempo, che è rimasto nelle nostre vite per sempre. 

 

da: lahaine.org; 20.4.2014

 

 

(traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

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