CIAO 2013, BUON 2014

 

2013: un bilancio provvisorio

 

di Atilio Boron (*)

 

L’anno che finisce è stato prodigo di avvenimenti che hanno lasciato segni profondi nel sistema internazionale. Al momento di rivederli, lo sguardo dell’analista è sempre condizionato; non esiste un’osservazione che riesca ad essere indipendente dai condizionamenti che la geografia e il tempo storico esercitano sull’osservatore. Il nostro sguardo, dal “qui e ora” della Nostra America sarà sicuramente diverso da quello che può avere qualcuno che si trovi in Europa, Asia o Africa. 

Fatta questa necessaria premessa metodologica, diciamo che l’avvenimento più importante, che segna di tristezza l’anno che finisce, è stato la morte del Comandante Hugo Chàvez Frìas. Il leader bolivariano è stato una vera forza della natura: un uragano che, col suo fervore antimperialista, la sua visione strategica della lotta che bisognava combattere contro l’impero e il suo protagonismo instancabile ha riconfigurato decisamene la mappa sociopolitica dell’area. Chàvez è stato il gran maresciallo della battaglia dell’ALCA, sconfiggendo il principale progetto degli Stati Uniti per completare la sottomissione dell’America Latina e dei Caraibi ai loro interessi. Ed è anche stato l’uomo che ha riempito di proposte quella che, prima della sua irruzione nella vita politica della regione, era una gradevole ma inoffensiva retorica latinoamericanista, orfana di contenuti concreti.

 

Per Chàvez questa doveva essere una convocazione all’unità dell’America Latina e dei Caraibi, unità e non solo integrazione; doveva essere, sulle tracce della Rivoluzione Cubana, l’ambito di creazione di un internazionalismo solidario, che si traducesse in progetti concreti come la Banca del Sud, Petrocaribe, TeleSUR, UNASUR e la CELAC, tra tanti altri. La sua morte, in circostanze ancora non chiarite, ha riempito di gioia l’imperialismo e i suoi alleati, che pensavano che con essa sarebbe finito il chavismo. Ma, e questa è una delle note più positive dell’anno, la sparizione fisica di Chàvez non ha impedito che il chavismo tornasse a trionfare nelle elezioni presidenziali del 14 aprile – consacrando presidente Nicolàs Maduro – e, di nuovo, per una decisa differenza di più di un milione di voti, sulla coalizione di opposizione nelle elezioni municipali dell’8 dicembre.

 

A quanto pare Chàvez sarà ancora con noi.  

 

Un’altra notizia molto importante è stata la sorprendente elevazione del cardinale Jorge Bergoglio al papato. Personaggio complesso, la consacrazione di questo gesuita ha dato adito ad un aspro dibattito che è ben lontano dallo spegnersi in Argentina. Gerarca di una chiesa che fu complice di tutti i crimini della dittatura, vi sono quelli che lo fustigano per i suoi atteggiamenti tiepidi e ambivalenti, soprattutto se messi a confronto con quelli che ebbero altri vescovi come i monsignori Enrique Angelelli – che pagò con la vita il suo coraggio – Jaime de Nevares, Jorge Novak, Miguel Hesayne. Questa sinuosità della sua condotta, sintomo di ciò che Antonio Gramsci definiva “gesuitismo”, spiega le ragioni per cui, insieme ai suoi critici, è emerso dalle fila della sinistra, dei difensori dei diritti umani e della teologia della liberazione, un focoso contingente di difensori di Francesco pronti a segnalare le forme discrete con cui l’allora padre provinciale dei gesuiti proteggeva il suo gregge. Al di là di questo dibattito irrisolto, i timori che molti avevano nel senso che Francesco potesse trasformarsi in una reincarnazione di cattivo augurio di Giovanni Paolo II (che insieme a Ronald Reagan e Margaret Thatcher avrebbe rappresentato il più formidabile tridente reazionario del secolo ventesimo) finora hanno dimostrato di essere ingiustificati. Di più, un certo cambio nel lessico del Pontefice (come, ad esempio, parlare di “Patria Grande” in occasione della visita di Cristina Fernàndez de Kirchner in Vaticano) o la sua insistente “opzione per i poveri” dimostrano che ha percepito con fine olfatto i dati di questo “cambio di epoca” e che il Venezuela non è la Polonia, e l’Ecuador non è la Cecoslovacchia. Se quei governi dell’Europa Orientale soccombettero davanti all’assalto convergente del Vaticano, di Washington e Londra ciò accadde perché il loro deficit di legittimità li rendeva altamente vulnerabili. Ben diversa è la situazione dei governi di sinistra del Sudamerica, dove Bolivia, Ecuador e Venezuela contano su una legittimità popolare incomparabilmente superiore a quella di cui hanno mai goduto le loro presente controparti europee. In poche parole: il Vaticano non ignora che i cambiamenti avvenuti in Latinoamerica e nei Caraibi dagli inizi del secolo ventunesimo sono ormai senza ritorno. Ne Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Marx evoca l’intervento del Cardinale Pierre d’Ailly al Concilio di Costanza (1414-1418) quando, di fronte alle lamentele dei puritani per la vita licenziosa dei papi, egli rispose con voce tonante “Quando solo il demonio in persona può salvare la Chiesa cattolica, voi chiedete angeli!”. L’attuale situazione della Chiesa è molto peggio di quella che tanto preoccupava d’Ailly: interminabile emorragia di fedeli, scandali della pedofilia, giudizi milionari per le vittime e bancarotta delle chiese appesantite dal pagamento di enormi indennizzi, maneggi mafiosi della banca del Vaticano, il ruolo della donna nella Chiesa e la messa in discussione sempre più dall’interno del celibato sacerdotale rappresentano un’agenda che è ben difficile lasci il tempo a Francesco per organizzare la dispersa e confusa destra latinoamericana, sempre che voglia farlo. Ma per questo c’è “l’ambasciata”.  

 

Un altro fatto di grande importanza è il riemergere della Russia come uno dei principali attori della politica mondiale. L’Unione Sovietica lo era stata nel quasi mezzo secolo trascorso dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. L’ “Ordine bipolare” dell’epoca le assegnava un protagonismo fondamentale, ma quando avvenne lo sprofondamento dell’URSS nel 1991-92 lo stato che le succedette, la Russia, rimase completamente isolata dai principali scenari della politica internazionale. Questo consentì che alcuni pubblicisti dell’impero si compiacessero dell’illusione che lì cominciasse il “nuovo secolo (nord) americano” e non risparmiassero definizioni umilianti , comprese alcune di stampo razzista, contro i russi, come Vladimir Putin si sarebbe incaricato di ricordare loro diverse volte.

 

Il sogno del “nuovo secolo americano” durò molto poco e, con gli attentati dell’11 Settembre, divenne un insopportabile incubo. La Russia, che non aveva mai cessato di essere una potenza atomica – piccolezza dimenticata dagli apologisti del “nuovo ordine mondiale” spinto da George Bush padre – e che continuava ad accumulare forze dall’inizio del secolo, è tornata prepotentemente sullo scenario mondiale concedendo asilo politico niente meno che a Edward Snowden, il nemico pubblico n. 1 di Washington e, in seguito, torcendo il braccio a Barak Obama e al suo scudiero, John Kerry, facendo abortire i loro piani di bombardare la Siria.

 

Se quanto sopra non fosse abbastanza, il suo chiaro appoggio a Teheran ha anche reso possibile un lieto fine militare sulla questione del programma nucleare iraniano, in una crisi spinta al parossismo dal regime israeliano e dai suoi compari nell’area, in particolare dall’Arabia Saudita. Con tre gesti Mosca ha dimostrato che le spacconate di Washington mancavano di sostanza reale e potevano essere neutralizzate a beneficio della pace e della sovranità del diritto internazionale.

 

L’impetuosa riemersione della Russia, sommata alla già consolidata gravitazione della Cina nell’economia e nella politica mondiale, ha finito per cristallizzare significative modificazioni sulla grande scacchiera geopolitica internazionale. Cambiamenti – questi – che favoriscono i progetti di emancipazione della Nostra America perché il crollo dell’unipolarismo nordamericano e l’accelerata – e, a quanto pare, irreversibile – edificazione di una struttura multipolare di potere mondiale apre nuovi ed inediti margini di manovra per i paesi dell’America Latina e dei Caraibi, tradizionalmente sottomessi al giogo statunitense.  

 

All’evidente indebolimento del potere globale degli Stati Uniti – riconosciuto nientemeno che dal più significativo intellettuale dell’impero, Zbigniew Brzezinski – e del quale la chiusura dei suoi uffici governativi per due settimane è solo uno dei tanti sintomi, si aggiunge l’esaurimento del progetto europeo, sacrificato sull’altare della banca tedesca, il che fa del mondo uno spazio molto più aperto e indeterminato, i cui spiragli e contraddizioni offrono una magnifica opportunità perché i popoli della Nostra America avanzino decisamente verso la conquista della loro seconda e definitiva indipendenza. 

 

Naturalmente, nel 2013 sono successe molte altre cose, impossibile da esaminare qui in dettaglio. Permettetemi solo di menzionare l’importanza dei dialoghi di pace tra il governo di Juan M. Santos e le FARC, spinti dal clamore popolare che in Colombia esige la fine del conflitto armato e le aspettative riguardo alle elezioni presidenziali del maggio 2014; la crisi tra Santo Domingo e Haiti, scoppiata per le razziste norme che negano la nazionalità al figli degli haitiani nati nella Repubblica Dominicana; le elezioni dello scorso 27 ottobre in Argentina, che hanno seminato dubbi sulla continuità del processo apertosi nel 2003; il trionfo di Michelle Bachelet che è tornata alla presidenza di un Cile sconvolto dall’olocausto sociale del neoliberismo; la continuazione e l’approfondimento della crisi in Messico, a vent’anni dal “grido” degli Zapatista in Chiapas; la vigorosa e inaspettata irruzione di grandi manifestazioni di massa in Brasile, a poco meno di un anno dalle presidenziali dell’ottobre 2014, che hanno sconvolto la stolidità di un ordine sociale profondamente ingiusto e rabbiosamente oligarchico; la schiacciante vittoria di Alianza Paìs nelle elezioni legislative dell’Ecuador, che hanno permesso a Rafael Correa di ottenere una maggioranza assoluta nell’Assemblea nazionale; il lento ma irreversibile approfondimento dei nuovi “lineamenti” nell’economia cubana, orientati ad attualizzare e rafforzare le fondamenta materiali della Rivoluzione; il consolidamento della leadership di Evo Morales in Bolivia a fronte delle elezioni del prossimo ottobre; la piena integrazione del Venezuela nel Mercosur, con il voto favorevole del Senato paraguayano, e la coraggiosa resistenza dei popoli davanti ai disastri delle estrazioni minerarie e cielo aperto, al “fracking” e all’auge dell’agro-affare monoprodotto (soja, canna da zucchero, palma africana, ecc.), sono dati che anch’essi hanno segnato l’agenda dell’anno che finisce e che meriterebbero un’analisi dettagliata che non possiamo fare qui. 

 

Va aggiunto a quanto sopra la continuazione dell’aggressione imperialista e la guerra civile in Siria, dove Al Qaeda – con la benedizione e l’appoggio della Casa Bianca (scusate, non era stata questa organizzazione quella che tramò e eseguì l’attentato dell’11-S??) lotta gomito a gomito con i mercenari sauditi, yemeniti e israeliani che vogliono farla finita con il regime di Bashar al-Assad; bisogna anche ricordare il golpe militare pro-nordamericano in Egitto contro il governo di Mohamed Morsi e la Fratellanza Musulmana, non sufficientemente pro-nordamericani per i gusti di Washington; l’intervento armato delle truppe francesi in Mali per contenere i fondamentalisti islamici alleati di Al Qaeda (mentre Parigi appoggia questa organizzazione in Siria e Francois Hollande si offre impudicamente di collaborare con gli Stati Uniti nel bombardare quel sofferente paese) e, finalmente, la morte di Nelson Mandela, comunista per tutta la sua vita che liquidò l’ “apartheid” sudafricano utilizzando, a seconda delle circostanze e del momento storico, tattiche violente e pacifiche e per questo fu inserito nella lista dei “terroristi” dagli Stati Uniti fino al luglio 2008.. Dopo la sua morte Mandela ha dovuto resistere ad una terribile operazione mediatica che ha cercato di appropriarsi della sua memoria e presentarlo come un pacifista ingenuo e conciliatore, un “adoratore della legalità” di uno stato razzista e di nascondere grossolanamente i dati storici che costellano la sua impressionante biografia di lotta con tutti i mezzi idonei per il successo della sua impresa liberatrice.

 

 Per concludere oggi, ormai in vista del 2014, dobbiamo celebrare con grande allegria il 55° anniversario del trionfo della Rivoluzione Cubana – un avvenimento “storico-universale”, come certo lo avrebbe definito il vecchio Hegel –che inaugurò una nuova era nella lotta dei popoli dell’America Latina e dei Caraibi, dell’Africa e dell’Asia per la loro definitiva emancipazione.

 

Una Cuba che resiste e resisterà per quanti blocchi e sabotaggi le applichino gli Stati Uniti, e che dimostra ogni giorno, ogni ora, che l’imperialismo non è invincibile e che può essere sconfitto. Per questo il suo ruolo nei processi di liberazione dei popoli del Terzo Mondo mette l’isola caraibica in un posto simile a quello che la Francia seppe occupare, dopo la Rivoluzione Francese, quale faro di orientamento per coloro che lottavano per scuotersi di dosso il gioco dell’assolutismo dinastico.

 

Cuba è la Francia dei nostri giorni e ha tutto il diritto del mondo di celebrare con allegria un nuovo anniversario della trionfale giornata del 1° gennaio del 1959.

 

Salve, Cuba e fino alla vittoria, sempre!

 

 

 

(*) Politologo argentino; da: atilioboron.com.ar; 1.1.2014

 

 

 

 

 

(traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

 

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