PALESTINA

Che c’è di male nel discorso sul lancio di pietre?
di Moriel Rothman

La prima volta che vidi la demolizione di una casa nel paese di Al-Khalayle, in Cisgiordania, avrei voluto prendere una pietra e lanciarla contro la scavatrice. La prima volta che andai ad una manifestazione a Nabi Saleh - una settimana dopo che a Mustafa Tamimi avevano sparato da breve distanza una granata di gas lacrimogeno che gli colpì l’occhio e il cervello, e infine gli tolse la vita –avrei voluto lanciare una pietra contro le jeeps dell’esercito israeliano.

Non conoscevo la famiglia del piccolo villaggio palestinese la cui casa stavano demolendo per colpa dell’arbitrarietà amministrativa di Israele. Semplicemente li vidi là in piedi guardare in silenzio, un bimbo piccolo con un bambolotto di Spiderman in mano grande quasi come lui.

Non ho mai conosciuto Mustafa Tamimi. Ho solo visto su Facebook le foto di un uomo giovane, della mia età, che giaceva sulla strada con il sangue che scorreva da dove prima c’era l’occhio.

Sono un israeliano orgoglioso e un ebreo religioso, osservatore e pacifista. E la prima volta che vidi demolire una casa avrei voluto lanciare una pietra.

Il dibattito sul lanciodi pietre è stato recentemente riaperto da Jodi Rudoren in un articolo del NewYork Times sulla “cultura del lancio dipietre” dei palestinesi. Come scrisse Noam Sheizaf nella sua critica nel1972, l’articolo di Rudoren è uno strano pezzo di giornalismo noncontestualizzato, incentrato sull’atto del lancio di pietre senza spiegare laviolenza sistematica che provoca tale lancio. Implica l’aver inquadrato igiovani palestinesi come “culturalmente violenti”, ignorando in grande misurale azioni (e la cultura) dell’attore più
violento dell’arena: lo Stato di Israele e il suo braccio esecutivo, l’esercitoisraeliano.

 

Mi oppongo al tirarepietre alle persone o alle auto in movimento, perché questo tipo di azionipossono danneggiare, hanno ferito delle persone e, in alcune occasioni, hanno anche ucciso. In altre parole, sono contro atti che feriscono e uccidono lagente, cioè contro la “violenza”. C’è certamente un luogo per un francodibattito sul lancio di pietre nel contesto di un discorso più ampio sullaviolenza, sul pacifismo e sull’etica di entrambe le cose.

Ma non è questo ilcontesto in cui si discute del lancio di pietre in generale. Invece spesso si
considera il lancio di pietre un fenomeno esclusivamente palestinese. Ce se ne èserviti come parte di un discorso che considera la violenza palestinese controgli ebrei categoricamente inaccettabile e invece accetta e persino elogia laviolenza ebrea contro i palestinesi quando la fanno lo Stato e l’esercitoisraeliano.

In Open Zion, Micah Stein – con cui ho avuto eccellenti e importantiscambi su queste pagine l’anno scorso riguardo al mio rifiuto di servirenell’esercito israeliano – ha risposto a 
Rudoren con un articolo intitolato “Che c’è di male nel tirare pietre?”.


Lì Stein scrive che la cultura palestinese “incoraggia il comportamentoviolento e pericoloso dei bambini” e che il lancio di pietre dei palestinesi sideve ad una “mentalità che passa di padre in figlio”. Forse ha ragione: perquanto ho visto e sperimentato ci sono settori della cultura palestinese cheglorificano totalmente la violenza. Ma, è lì dove sta il problema? Stein sioppone alla violenza palestinese perché è violenta o perché è palestinese?

Noi, come scrittori ericercatori di pace, ci riferiamo ad una “cultura di violenza” che “incoraggiail comportamento violento e pericoloso dei bambini”. Cominciamo a criticare gli
elementi della cultura ebrea israeliana che non solo tollera, ma che persino sirallegra del reclutamento dell’esercito di centinaia di ragazzi al fine dilottare e uccidere. La violenza che si fa in uniforme non è meno brutale emortale della violenza che si fa in jeans e maglietta. E la violenza fatta coni carri armati e gli aerei da combattimento e gli M16 è molto più mortale ebrutale della violenza causata da sassi e pietre.

Oppure potremmocominciare anche più vicino a casa: cominciamo dalla critica degli accampamentid’estate ebreo-statunitensi con esercizi militari simulati e con le vacanze in
Israele, dove vengono inviati giovani ebrei statunitensi in un progettocombinato con l’esercito, per un mese, o con la cultura militarista cheimpregna i viaggi del progetto Birthright; o organizzazioni come quellaesistente a New York senza fini di lucro “Amici dell’Esercito Israeliano”, cheinvia milioni di dollari non tassati per appoggiare militarmente Israele, oquello che succede nella nostra cultura generale, che applaude gli ebreistatunitensi, specialmente i giovani, che si trasferiscono in Israele perunirsi all’esercito. 

 

Se uno scrittore vuolecriticare la violenza nel contesto palestinese-israeliano, io sono completamented’accordo. Ma deve essere una critica onesta e proporzionata (considerando che è un’oscenità che un bambino palestinese di 12 anni possa essere condannato amesi di prigione per aver lanciato pietre mentre un uomo responsabile del
massacro della popolazione civile possa diventare Primo Ministro).

Una critica dellaviolenza in Israele e in Palestina senza dubbio può includere la critica al lancio di pietre, ma deve riconoscere che una cultura non è meno violenta perle sue uniformi né per il permesso “ufficiale” di uccidere e mutilare. Se nonsi tiene conto e non si discute delle costanti azioni violente e mortaliesercitate dall’esercito israeliano, allora non vi è una vera critica dellaviolenza. Anzi, è una critica della violenza palestinese.

Quando oseremo imboccarequesta strada? Come osiamo definire criminale un bambino palestinese che gettauna pietra e chiamiamo eroe un bambino israeliano (o statunitense) che gettabombe su un villaggio?

Come osiamo insegnare ai palestinesi l’adozione della non violenza mentre spingiamo i giovani adadottare la violenza? Come osiamo censurare la “loro” cultura della violenza
mentre pretendiamo di essere lontani dalla “nostra”?
Come osiamo?!

(*)Scrittore e attivista statunitense/israeliano. Oggi vive a Gerusalemme; da: rebelion.org; 13.8.2013.

(traduzionedi Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” Via Magenta
88, Sesto S.Giovanni)
 

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