VERITA' E BUGIE

Quali mani muovono quelle drammatiche immagini di “YouTube”?

I falsificatori di notizie

di Patrick Cockburn (*) ; da: rebelion.org; 17.1.2012

 

Il pettegolezzo, di solito, ha una cattiva fama. Nelle opere di Shakespeare, si dava per scontato che i pettegolezzi fossero in realtà artistiche menzogne e particolareggiati racconti di vittorie e sconfitte.

Nessun giornalista potrebbe informare credibilmente su massacri, torture e arresti di massa utilizzando “insistenti dicerie” come unica prova del suo scritto. Gli editori di qualsiasi giornale, catena televisiva o stazione radio in cui lavorasse un giornalista simile, scuoterebbero senza dubbio la testa con incredulità davanti ad una fonte tanto vaga e dubbia ed è quasi certo che rifiuterebbero di pubblicare la notizia.

 

Ma supponiamo che il nostro giornalista tolga la parola diceria e la sostituisca con fonti come YouTube o un altro blogger. Allora, in base a recenti esperienze, gli editori tenderanno a dare il loro assenso, elogiando pure il loro dipendente per il suo accurato utilizzo di Internet. La BBC e altre catene televisive ci offrono felicemente, ogni notte, immagini del caos della Siria, su cui negano apertamente la responsabilità della loro attendibilità.

Questo tirarsi da parte suona tanto spesso che attualmente ha lo stesso impatto sugli spettatori che l’avviso che un’informazione può contenere immagini pornografiche. Il pubblico considera, logicamente, che se la BBC e altri canali non fossero convinti della veridicità delle immagini che YouTube offre, non le utilizzerebbero come fonte principale di informazione sulla Siria.

 

Può darsi che le immagini di YouTube abbiano avuto un ruolo positivo nelle sollevazioni della “primavera araba”, ma la stampa internazionale rimane muta, in gran parte, rispetto alla facilità di manipolare quelle immagini.

Fotografata da un angolo preciso, si può far apparire una piccola manifestazione come una riunione di decine di migliaia di persone. Alcuni spari nelle strade di una città possono essere utilizzati per la fabbricazione di “prove” di sparatorie in una dozzina di città. Le manifestazioni non devono necessariamente essere accadimenti catturati, fortunosamente, da telecamere di cellulari di cittadini interessati: spesso l’unica ragione della protesta è fornire materiale per YouTube. Le catene televisive non rifiutano questi filmati, né sottolineano la messa in scena degli stessi, quando si tratta di immagini gratuite, piene di drammaticità e appena prodotte, che esse non potrebbero produrre con i loro corrispondenti e le squadre di ripresa abituali, anche se spendessero molto denaro.

 

Sulla stampa scritta, i blogger hanno egualmente gioco facile anche nei casi in cui non esista alcuna prova che sappiano cosa sta succedendo. E’ così che uno studente statunitense, maschio e residente in Scozia, è riuscito facilmente farsi passare per una giovane lesbica perseguitata a Damasco. Dalla guerra in Irak persino i blogger più chiaramente schierati sono stati presentati come fonti di informazione oggettiva. Nonostante abbiano perduto un po’ della loro brillantezza, oggi mantengono ancora un certo prestigio e una certa credibilità.

 

I governi che escludono i giornalisti stranieri in tempi di crisi, come l’Iran e (fino all’ultima settimana) la Siria, creano un vuoto informativo facilmente colmato dai loro nemici. Questi sono molto meglio equipaggiati per offrire la loro versione dei fatti di quanto lo erano prima dello sviluppo della telefonia mobile, della televisione via satellite e di Internet. I monopoli statali dell’informazione sono ormai insostenibili. Ma solo perché l’opposizione ai governi di Sira e Iran si sia impadronita dell’agenda informativa, ciò non significa che quello che dice sia vero.

All’inizio dell’anno scorso mi incontrai a Teheran con alcuni corrispondenti iraniani di periodici occidentali, le cui credenziali di giornalisti erano state temporaneamente sospese dalle autorità. Dissi che la situazione doveva essere frustrante per loro, ma mi risposero che anche se avessero potuto inviare le loro cronache – in cui informavano che non stava succedendo gran che – i loro editori non lo avrebbero creduto. Questi erano stati convinti da gruppi di esiliati, attraverso i blogs e le immagini di YouTube accuratamente selezionate, che Teheran ribolliva visibilmente per lo scontento. E se i corrispondenti locali comunicavano che si trattava di esagerazioni, i loro datori di lavoro avrebbero sospettato che avessero subito intimidazioni o fossero stati corrotti dalla Sicurezza iraniana.

 

Non c’è niente di male o di sorprendente nel fatto che i movimenti rivoluzionari facciano propaganda camuffata. E’ sempre stato fatto in passato e sarebbe incredibile che non lo facessero oggi. Mio padre, Claud Cockburn, che combatté dalla parte della Repubblica nella guerra civile spagnola, una volta si inventò la cronaca di una ribellione contro un generale degli accoliti di Franco a Tetuan, nel Marocco spagnolo. Anni dopo, scoprì con sorpresa che lo si criticava duramente per quello che per lui era stato un colpo propagandistico, naturalmente, come se la disinformazione non fosse stata un’arma utilizzata da tutti i movimenti politici da Pericle in poi.

 

Le manovre di questo tipo non sono diventate obsolete con gli avanzamenti della tecnologia dell’informazione negli ultimi 20 anni. Questa è considerata in generale come un mezzo totalmente positivo e democratico, che ha ispirato le insurrezioni della “primavera araba”. E’ stato così, fino a un certo punto.

Il pugno di ferro degli stati polizieschi sui mezzi di comunicazione e su altre fonti di informazione si è spezzato in tutto il vicino Oriente. I governi hanno scoperto che la cruda repressione del passato poteva essere controproducente. Nel 1982 ad Hama, al centro della Siria, le forze del presidente Hafez al-Assad uccisero circa 10.000 persone e soffocarono la ribellione sunnita, ma non ci fu una foto di un solo cadavere. Oggi scene di tali massacri sarebbero su tutti gli schermi del mondo.

Così le innovazioni tecnologiche hanno reso più difficile ai governi nascondere la repressione. Ma queste innovazioni hanno anche reso più facile il lavoro dei propagandisti.

Naturalmente le persone che dirigono i periodici e le emittenti radio-televisive non sono sciocchi. Conoscono la natura dubbiosa della maggior parte dell’informazione che trasmettono. L’élite politica di Washington e dell’Europa era divisa, a favore e contro l’invasione statunitense dell’Iraq, cosa che rese più facile la dissidenza tra i giornalisti. Ma oggi esiste un consenso totale sui mezzi di comunicazione stranieri sul fatto che la ragione sta dalla parte dei ribelli e non dei governi. Quando proviene da istituzioni come la BBC, la copertura, per tendenziosa che sia, diventa accettabile.

 

Purtroppo Al Jazeera, un mezzo che ha fatto molto per spezzare il controllo statale dell’informazione nel vicino Oriente dalla sua creazione nel 1996, è diventata l’acritico braccio propagandistico dei ribelli di Libia e Siria.

L’opposizione siriana deve dare l’impressione che l’insurrezione sia molto più vicina al successo di quanto realmente lo sia. Il governo siriano non è riuscito a schiacciare i manifestanti, ma questi – a loro volta – sono molto lontani dal rovesciarlo. I dirigenti esiliati vogliono un intervento militare occidentale a loro favore, come è accaduto in Libia, anche se le condizioni sono molto diverse.

Lo scopo della manipolazione dei media è quello di persuadere l’Occidente e i suoi alleati arabi che le condizioni in Siria si stanno avvicinando al punto in cui possono ripetere l’esito della Libia. Da qui viene la nebbia disinformativa con cui Internet ci bombarda.

 

(*) Giornalista irlandese indipendente, è stato corrispondente in Medio Oriente del Financial Times e del The Indipendent. Ha ottenuto nel 2009 il Premio Orwell di giornalismo politico.

 

(traduzione di Daniela Trollio

Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

 

 

 

 

 

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