BAMBINI PALESTINESI INCARCERATI.

 

 

Bambini palestinesi

di Ilan Pappe (*), da: almendron.com – 2.8.2011

 

In memoria di Juliano Mar-Hamis (1)

 

Appaiono a metà della notte, quando i bambini sono profondamente addormentati, a volte sognando una vita migliore. Con gli occhi tappati, imbavagliati, ammanettati, i minori vengono portati ai camion e, la mattina stessa, ammucchiati nel Campo Offer, dipartimento n. 2 del Tribunale Militare, conosciuto anche come Dipartimento Infantile. Durante quel giorno – e tutti gli altri – dovranno restare seduti in una specie di aula dove non ci sono professori né padri, ma giudici, procuratori e molte guardie. I più grandi hanno tra i 10 e i 13 anni e sono accusati di tirare pietre alle forze armate israeliane, probabilmente denunciati dai loro stessi compagni di classe. Saranno interrogati brutalmente: colpi al viso e all’addome, privazione del sonno, punture di aghi sulle mani, sulle gambe e sui piedi, minacce di violenze sessuali e, in alcuni casi, elettroshock. Di solito confessano subito, sono terrorizzai, ma solo quando accettano di diventare collaborazionisti li liberano, se li liberano.

Ofra Ben-Zevi, una delle poche e coraggiose donne israeliane che lavora senza posa per il risveglio nazionale e internazionale delle coscienze addormentate, dice che bisogna chiamare questa politica criminale e odiosa “caccia al bambino”.

E’ facile dimenticarsi della Palestina mentre Damasco, Il Cairo e Sanaa sono in piena ebollizione. Il rumore degli spari contro i manifestanti, lo spettacolo dei dittatori seduti sul banco degli accusati, la genuina necessità dei cittadini arabi di trovare la propria via alla democrazia occupano i titoli della stampa.

La distruzione della Palestina è molto più lenta e la sua tragedia invisibile per il mondo esterno, ma è anche molto più antica di tutte queste rivoluzioni e ho paura che continuerà così molto dopo che una qualsiasi di quelle arrivi a dare frutti in una nuova - e piena di speranza – realtà. E, poiché la Palestina non fa parte di questa positiva trasformazione, questo colpirà la riuscita della sua sopravvivenza.

Questa è una ferita che non guarirà facilmente. Perché? Perché, dopo anni di caccia giornaliera, migliaia di bambini palestinesi hanno finito per diventare una generazione di tenaci resistenti, una generazione che mai soccomberà davanti alle pressioni di Israele anche se i suoi leaders lo faranno.

Loro non sono mai stati trattati da Israele come bambini, ma come criminali (al contrario di quanto succede all’interno di Israele, dove i delitti minori dei più giovani vengono cancellati dagli archivi o prescritti, cosa che non succede mai con i giovani della Palestina occupata, cosa che rende più facile alla polizia israeliana la possibilità di utilizzare come collaborazionista in qualsiasi momento chiunque di loro).

 

Secondo la ONG Adamer, da quando Israele oltrepassò le frontiere aggiudicategli prima del 1967, occupando Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est, sono stati incarcerati circa 700.000 palestinesi, cioè il 20% della popolazione totale di questi territori.

Secondo la stessa fonte, nelle sue carceri ne rimangono ancora più di 5.600 e per questo gli abusi di cui parliamo qui costituiscono solo un piccolo esempio di una realtà accumulativa, una scena di un film che non è ancora uscito e probabilmente non lo farà mai.

Immaginate quindi che la scena che descrivo abbia luogo nel Campo Offer, davanti all’egregio giudice Sharon Rivli o ad alcuno dei suoi colleghi, tutti i lunedì tra le nove del mattino e le sei del pomeriggio. Non tutti in Israele hanno sentito parlare del Campo Offer, ma se si prende la statale 443 da Tel Aviv a Gerusalemme (una strada apartheid sulla quale ai palestinesi è rigorosamente proibito viaggiare, nonostante sia stata costruita a discapito dei loro campi e attraversi e distrugga le proprietà di dozzine di villaggi palestinesi) si può vedere un enorme bastione di cemento armato: è il Campo Offer e là, e in altri campi come questo distribuiti strategicamente, opera l’industria israeliana delle “carceri” che mette tra le sbarre ogni giorno un numero di persone che supera di molto quello di alcuni dei regimi più brutali del mondo.

Centinaia di palestinesi sono portati qui tutti i mesi sulla base di uno dei procedimenti di arresto e detenzione più rapidi del mondo – un procedimento che non permette neppure agli avvocati di conoscere le accuse, e dove la maggior parte delle detenzioni finiscono senza processo e con condanne al carcere.

Questo tipo di abusi è tanto frequente da non fare più notizia. La routine, tuttavia, viene spezzata di tanto in tanto con qualche variante al menù. Alcuni giorni fa, ad esempio, un’intera classe di bambini terrorizzati è stata incarcerata. Sarà processata con lo stile “industriale”, secondo i metodi di questa giustizia, di questo macabro scherzo.

 

Le storie di Offer appaiono qua e là ogni tanto, ma da quando vedo non sono sufficientemente appariscenti da impressionare qualcuno. Una delegazione di deputati laburisti ha visitato il luogo nel dicembre scorso prima di essere intervistati da Amira Hass, del giornale Haaretz, e di raccontarle quanto era stata impressionante per loro l’esperienza di conoscere di prima mano la storia dei bambini torturati e obbligati a confessare crimini mai commessi. Uno dei deputati, Richard Burden, commosso, fu anche costretto ad ascoltare la sua guida che gli spiegava che quel giorno avevano avuto fortuna perché avevano visto i bambini ammanettati con le mani avanti e non dietro, che “come Lei sa, è una posizione molto più dolorosa”.

Anche Haaretz ha diffuso la storia di un giovane di 14 anni incarcerato senza processo. Il suo avvocato ha denunciato al tribunale che il giovane era stato brutalmente torturato durante le tre o quattro ore dell’interrogatorio. Come sempre in questi casi, né l’avvocato né lo stesso accusato avevano idea – né l’avranno mai – di cosa era accusato, la qual cosa – naturalmente – non è stata di ostacolo al suo incarceramento. Resterà, quindi, chiuso in un cubicolo di sette metri per tre, con altri nove prigionieri, svestendosi e facendo i suoi bisogni nella stessa stanza: una delle storie più usuali moltiplicata per cento, no … per mille altri casi.

 

Il giudice lavora efficientemente e rapidamente mandando un bambino dopo l’altro in carcere. Tutti sono vestiti con uniformi marroni o arancio. Catturati in piena notte, interrogati senza la presenza di alcun adulto o neppure un assistente sociale e denunciati spesso dai loro stessi compagni di classe.

Aya Qanyok, veterana dell’ONG Machsom Watch, che in un’occasione ha potuto assistere ai processi, ha raccontato la storia di un bambino di 13 anni che era imprigionato da tre mesi e mezzo. Quello stesso giorno assistette ad altri 24 processi a bambini venuti dal campo di Calandia (Ramallah), tutti sequestrati in piena notte e incatenati uno all’altro dalle forze militari dell’ “unica democrazia del Medio Oriente”.

Bambini incarcerati e interrogati non solo nell’Offer e in centri simili, ma anche negli stessi villaggi e quartieri dove vivono. A Ghawarta, città dove gli israeliani sospettavano che due studenti disperati avessero assassinato brutalmente una famiglia di coloni appartenente ad uno dei gruppi più fanatici di quelli che occupano i territori, li hanno cacciati di casa in casa. Il rastrellamento è stata seguito da duri interrogatori. I sospetti, uno di quattro anni e suo fratello di 11, sono stati interrogati due volte da due gruppi diversi di soldati.

 

Tutti questi fatti costituiscono una flagrante violazione non solo dei trattati internazionali sulla protezione dell’infanzia, ma anche delle stesse e avanzate leggi che Israele ha dato a se stesso.

 

Nel meraviglioso film I bambini di Arna, Juliano Hamis (1) ci mostra come - prima sua madre e poi lui stesso - cercarono di creare a Jenin uno spazio di libertà per i bambini palestinesi. Si trattava di una piccola compagnia di teatro, ma non durò molto: i cacciatori di bambini la trasformarono immediatamente in un loro obiettivo.

Ora anche Juliano è stato appena assassinato, forse da un islamico fanatico, forse da un collaborazionista israeliano.

Con lui sparisce un altro dei pochi spazi sicuri per l’infanzia nei territori occupati da Israele nel 1967.

Intanto, il lento genocidio della Palestina continua.

 

(*) Storico israeliano. Professore cattedratico del Dipartimento di Storia dell'Università di Exeter (Inghilterra) e co-direttore del suo Centro per gli Studi Etno-Politici. Ha fondato e guidato l'Istituto per la Pace a Givat Haviva (Israele) fra il 1992 e il 2000, e ha ricoperto la cattedra dell'Istituto Emil Touma per gli Studi Palestinesi di Haifa (2000-2008).

(1) Attore, figlio di Arna Mer, attivista israeliana per i diritti dei palestinesi. Suo padre era Saliba Khamis, uno dei leader del Partito comunista israeliano negli anni ‘60. Direttore del Teatro della Libertà di Jenin, Mer-Khamis era noto per il suo attivismo politico nel conflitto israelo-palestinese, con dure prese di posizione nei confronti della occupazione dei territori in Palestina e della politica dello stato di Israele in materia di insediamenti nelle zone occupate. È stato assassinato a Jenin, il 4 aprile 2011.

 

(Traduzione di Daniela Trollio

Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

Via Magenta 88, Sesto S. Giovanni)

 

 

 

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