CONFERENZA SUL CLIMA DI PARIGI

Cosa c’è in gioco alla Conferenza sul Cambio Climatico di Parigi

(ora che sono proibite le manifestazioni)


                                         di Naomi Klein (*); da: lahaine.org; 24.11.2015


Chi sono quelli la cui sicurezza va protetta con qualsiasi mezzo? E chi sono quelli la cui sicurezza casualmente si sacrifica, nonostante ci siano modi di agire molto migliori?

Queste sono le domande al centro della crisi climatica e le risposte sono la ragione per cui i vertici sul cambio climatico spesso finiscono tra lacrime e recriminazioni.

La decisione del governo francese di proibire le proteste, le manifestazioni e altre “attività all’aria aperta” durante il vertice di Parigi sul cambio climatico è preoccupante su molti piani.

Quello che mi preoccupa di più ha a che vedere con la forma in cui riflette la disuguaglianza fondamentale della stessa crisi climatica e la questione chiave di quale è la sicurezza e di chi è quella a cui si da valore in questo mondo disuguale.

Ci sono quelli che dicono che tutto va bene contro il telone di fondo del terrorismo. Ma un vertice sul cambio climatico non è come una riunione del G8 o dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, in cui si trovano i potenti e dove quelli senza potere cercano di guastargli la festa. Gli atti della “società civile” parallela non sono qualcosa di aggiunto né distrazioni dal fatto principale. Sono parte integrante del processo, ragion per cui il governo francese non avrebbe mai dovuto permettersi di decidere qual parte del vertice avrebbe cancellato e quale mantenuto.

Prima di tutto, dopo gli orrendi attentati del 13 novembre, era necessario determinare se esisteva la volontà e la capacità di ospitare il vertice nel suo insieme, con la piena partecipazione della società civile, compreso ciò che si svolge nelle strade. Se così non poteva essere, bisognava fare un passo indietro e chiedere ad un altro paese l’impegno a tenerlo.

Invece di agire così, il governo di Hollande ha preso una serie di decisioni che riflettono un insieme di valori e di priorità molto particolari riguardo a chi e a che cosa riceverà una completa protezione di sicurezza dallo Stato.

Sì ai leaders mondiali, alle partite di calcio e ai mercatini di Natale; no alle manifestazioni sul cambio climatico e alle proteste che puntano al fatto  che i negoziati, con l’attuale livello di obiettivi di emissione, mettono in pericolo le vite ed il modo di vivere di milioni, se non di migliaia di milioni, di persone.

 

E chi lo sa dove finirà tutto questo? Bisognerà aspettarsi che le Nazioni Uniti revochino arbitrariamente le credenziali della metà dei partecipanti della società civile? Di quelli che hanno più probabilità di causare problemi all’interno del vertice murato come una fortezza? Non mi sorprenderebbe per nulla.

 

Vale la pena pensare a cosa significa la decisione di cancellare manifestazioni e proteste in termini reali, e anche simbolici.

 

Il cambio climatico rappresenta una crisi morale perchè, ogni volta che i governi delle nazioni opulente si mostrano incapaci di agire, il messagio che si manda è che noi, nel nord globale, stiamo mettendo il nostro comfort immediato e la nostra sicurezza economica prima della sofferenza e della sopravvivenza dei popoli più poveri e vulnerabili della Terra.

La decisione di proibire gli spazi più importanti in cui si sarebbero sentite le voci della gente che ha sofferto le ripercussioni del cambio climatico presuppone una drammatica espressione di questo abuso di potere profondamente contrario all’etica: una volta di più, un opulento paese occidentale mette la sicurezza delle sue élites prima degli interessi di quelli che lottano per la sopravvivenza. Una volta di più il messaggio è che la nostra sicurezza non è negoziabile, la vostra è qui, per chi la vuole.

 

Una riflessione in più. Scrivo queste parole da Stoccolma, dove ho fatto una serie di conferenze pubbliche sul tema del cambio climatico. Quando sono arrivata, la stampa si alimentava di un tuit inviato dalla Ministra svedese per l’Ambiente, Asa Romson.

Poco dopo che si sono diffuse le notizie sugli attentati di Parigi, lei ha tuittato la sua indignazione e tristezza per la perdita di vite. Poi ha tuittato che pensava fosse una brutta notizia per il vertice sul clima, una riflessione condivisa da tutti quelli che io conosco legati a questo movimento ambientale. Ma è stata derisa per la sua presunta insensibilità. Come poteva pensare al cambio climatico nel momento in cui era successa una tale carneficina?

 

La reazione è stata rivelatrice, visto che dava per scontato la nozione che il cambio climatico è una questione minore, una causa senza morti reali, persino frivola. Soprattutto quando questioni serie come la guerra e il terrorismo sono al centro della scena. Mi ha fatto pensare a qualcosa che Rebecca Solnit ha scritto non molto tempo fa: “il cambio climatico è violenza”.

 

Lo è. Parte di questa violenza è terribilmente lenta: mari che si alzano e cancellano gradualmente interi paesi, siccità che uccidono molte migliaia di persone. Parte di questa violenza è invece terribilmente rapida: tormente con nomi come Katrina e Ivan che si portano via migliaia di vite in un solo accadimento turbolento.

Quando governi e grandi società non sono capaci di agire per prevenire un riscaldamento catastrofico, questo costituisce un atto di violenza.

E’ una violenza così grande, così globale e che viene inflitta contro tante temporalità simultaneamente (antiche culture, vite presenti, potenziale futuro) che non c’è ancora una parola capace di contenere la sua mostruosità.

E ricorrere ad atti di violenza per far tacere la voce di coloro che sono i più vulnerabili alla violenza del cambio climatico presuppone ancora più violenza.

 

Per spiegare perchè le partite di calcio si faranno come programmato, il segretario di Stato francese per lo Sport ha affermato: “La vita deve continuare”.

Certo che sì, per questo mi sono unita al movimento per la giustizia climatica. Perchè quando governi e grandi imprese falliscono al momento di agire in un modo che rifletta il valore di tutta la vita sulla Terra, bisogna protestare.

 

 

(*) Giornalista canadese, autrice del saggio No Logo, considerato il manifesto del movimento no global.

 

(traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

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