GRECIA

Grecia (e Europa): la tragedia non finisce qui

di Daniela Trollio (*)

 

Il dramma del popolo greco si sta consumando, e siamo lontani dal vederne la fine. Ma, prima di parlare dell’indubbio “tradimento” di Syriza, o di una sua parte, mi sembra importante inquadrare quanto è successo in questi ultimi mesi partendo da un dato molto semplice: l’economia greca vale, in quella dell’Unione Europea, appena il 2% e il suo debito pubblico è più o meno pari a quello dei paesi chiamati GIPSI (Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e… Italia).


Allora perché tanto accanimento?

 

Un esperimento di laboratorio

Credo che la Grecia sia, per il capitale finanziario internazionale, quello che a suo tempo fu il Cile.

Il terreno di un esperimento che dovrà avere come risultato la totale, completa e irreversibile fine di tutte quelle strutture che possono frenare la corsa al massimo profitto, dai diritti ormai stracciati dovunque dei lavoratori a quanto resta del simulacro della “democrazia”, agli Stati stessi intesi come mediatori tra interessi diversi.

Esperimento tentato dapprima in altri continenti con mezzi violenti, fallito dopo il ventennio delle dittature latinoamericane diventate troppo costose, riproposto oggi con mezzi altrettanto violenti ma non più militari (per ora).

L’esperimento parte da lontano, dalla costituzione dell’Unione Europea e dall’introduzione della moneta unica e delle strutture derivate, fondamentalmente la Banca Centrale Europea.

Lascio la parola al professore di Scienze Politiche dell’Università Pompeu Fabra di Barcellona, Vicenç Navarro, per spiegarmi meglio:

 “………. bisogna tener conto che la sostituzione della moneta di ogni paese con l’euro significò per ogni paese rinunciare ad avere una propria banca centrale.

Questa è l’origine dell’enorme problema del debito pubblico degli Stati, e in particolare di quello dei paesi periferici come Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda, i cosiddetti PIGS, che si trasformarono in GIPSI quando si aggiunse l’Italia.

Una delle funzioni di una banca centrale degna di questo nome è definire il prezzo della moneta (allora il prezzo della peseta spagnola, ad esempio), in modo che lo Stato possa abbassare il suo valore quando vuole rendere i suoi prodotti più a buon mercato e più competitivi, stimolando così l’economia.

E’ quello che si chiama “svalutazione monetaria”.

Ora, invece, lo Stato spagnolo e gli altri Stati non possono svalutare la moneta (cioè ribassare il suo prezzo e competere meglio con altri Stati, sia all’interno che all’esterno della Eurozona).

I paesi dell’Eurozona hanno tutti una stessa moneta, l’euro. E l’unica istituzione che può variare il prezzo dell’euro, svalutandolo, è la Banca Centrale Europea (BCE), sulla quale l’influenza degli Stati dell’Eurozona è praticamente inesistente.

Ma quando la BCE abbassa il prezzo dell’euro, questo beneficia la competitività di tutti i paesi dell’Eurozona nel loro commercio con paesi al di fuori di essa, ma non con i paesi all’interno dell’euro, perché tutti stanno utilizzando la stessa moneta. E, visto che la maggior parte del commercio estero di questi paesi avviene all’interno dell’Eurozona, l’abbassamento dell’euro non rende più competitiva l’economia spagnola rispetto, ad esempio, a quella francese o tedesca.

Da qui discende che l’unica soluzione che gli establishments finanziari, economici, politici e mediatici considerano per aumentare la competitività di un’economia sia abbassare i salari.”

 

Perché questa necessità estrema, per il capitale, di abbassare i salari nonostante questi siano caduti vorticosamente durante questi 5 anni di crisi, a fronte invece di un aumento vertiginoso dei profitti?

C’è un nemico che fa paura, soprattutto al capitale europeo più forte, quello tedesco: la Cina, che ha sorpassato recentemente gli Stati Uniti quanto ad esportazioni di merci. E il ‘segreto’ cinese è una sterminata massa di mano d’opera a bassissimo costo, oltre al fatto che – come vediamo proprio in questi giorni – al rallentamento della sua economia lo Stato cinese può rispondere con la svalutazione della sua moneta, gettando nel panico i “mercati”.

Nell’Europa dell’Est ci sono paesi dove i salari raggiungono a malapena i 3-400 euro mensili, ma evidentemente non basta: bisogna trasformare il sud d’Europa in una nuova colonia, a cui rapinare non già le materie prime che non possiede ma tutto quanto può produrre profitti, ed ecco che una società tedesca si compra ben 14 aeroporti greci privatizzati, ad esempio.

 

Infatti il piano è già pronto. Lascio parlare ancora il prof. Navarro:

“… Mi sto riferendo concretamente al documento preparato da cinque presidenti (Jean-Claude Juncker, Presidente della Commissione  Europea; Martin Schulz, Presidente del Parlamento Europeo; Jeroen Dijsselbloem, Presidente dell’Eurogruppo; Donald Tusk, Presidente del Consiglio Europeo; e Mario Draghi, Presidente della banca Centrale Europea) con alcune proposte su come avanzare verso l’integrazione monetaria in questa zona d’Europa..……Ed è là, nella “svalutazione salariale”, che interviene il rapporto dei cinque presidenti, che raccomanda niente meno che si costituisca una Authority chiamata Competitiveness Authority (l’ente responsabile di stimolare la competitività) a carattere indipendente (che vuol dire che sarà composta da “esperti” – cioè tecnocrati), che indichi il livello dei salari permessi, dotata di responsabilità normativa e sanzionatoria.  Cioè tale ente deciderebbe i salari e sanzionerebbe gli Stati che non seguissero le sue norme”.

Ecco il piatto avvelenato che ci stanno preparando. Quindi non solo di Grecia si tratta, ma di tutta l’Europa.

 

Non c’è alternativa……

La responsabilità politica di Tsipras e di Syriza nell’aver subito, o condiviso, il diktat della Troika con una completa giravolta rispetto al mandato popolare espresso sia nelle elezioni che, soprattutto, nel referendum è evidente. Questo ha avuto ripercussioni anche nel suo partito. I dissidenti hanno lasciato Syriza il 21 agosto per dare vita a un nuovo partito che si chiamerà 'Unità popolare'  con 25 parlamentari. Il nuovo partito sarà guidato dall'ex ministro dell'Energia Panagiotis Lafazanis, leader della fazione di estrema sinistra all'interno di Syriza. Il nuovo partito diventerebbe il terzo del Parlamento greco, che conta 300 seggi, davanti al centrista To Potami e ad Alba dorata di estrema destra, entrambi con 17 parlamentari. Subito dopo aver annunciato in diretta tv le sue dimissioni  il premier greco Alexis Tsipras ha annunciato la convocazione delle nuove elezioni che si faranno il 20 settembre, mettendo fine così il governo di Syriza-Anel iniziato con le elezioni del 25 gennaio.

Quanto è successo dice alcune cose a tutti i popoli d’Europa:

1. la democrazia, il mantra dei poteri forti per scatenare guerre umanitarie (dalla Jugoslavia alla Libia e via dicendo) non conta nulla, è un concetto vuoto che ora non serve più per asservire i popoli; anzi ora il capitale getta tranquillamente la maschera e schiaffeggia chi ci ha creduto, il popolo greco in primis. E’ bastato chiudere il rubinetto della liquidità monetaria per mostrare che democrazia e sovranità sono illusioni;

2. la “sinistra”, anche quella che si presenta con un programma anti-austerità ( e questo riguarda non solo la Grecia ma anche la Spagna, il Portogallo e altri paesi in cui si va verso nuove elezioni), che crede ancora che l’importante sia arrivare alla “stanza dei bottoni”, si dimostra inutile visto che poi applica con maggior rigore le politiche della “destra”. Questa “sinistra” che sembra ignorare che l’indipendenza nazionale, le conquiste democratiche e le riforme sono il sottoprodotto della lotta anticapitalista, da anni semina illusioni (e noi in Italia ne abbiamo profonda esperienza, si chiamino sindacati confederali, Rifondazione, Movimento 5 Stelle,  Fiom, Landini, o quello che volete) sprecando l’appoggio popolare, provocando sonore sconfitte che disarmano, disorganizzano e demoralizzano i lavoratori.

Il messaggio è chiaro: al dio mercato non c’è alternativa.

 

Credo che vada anche detta una cosa non troppo piacevole: alla lotta del popolo greco non è corrisposto alcun “movimento” di solidarietà,  a parte quello di forze politiche che blaterano contro l’euro, per l’Europa dei popoli, ma non fanno niente in concreto nel loro paese per contrastarlo. Paradossalmente questa solidarietà è venuta da parti lontane del globo, in particolare da quell’America Latina che questi processi aveva già vissuto e li ha riconosciuti immediatamente con chiarezza. Qualcuno forse crede ancora nella “Europa dei popoli”, senza ricordare che l’Unione Europea è nata da trattati (Maastrich, Lisbona ecc.) che impongono a tutti i paesi la totale subordinazione

 

 

Syriza

A onor del vero, bisogna dire che Syriza non si è mai presentata come “rivoluzionaria”, anche se in molti hanno desiderato che lo fosse. Le illusioni e le scorciatoie di chi ha creduto, anche in buona fede,) di poter cambiare questa Europa devastata – dal punto di vista dei lavoratori - dalla crisi economica, attraverso una voce di opposizione alla Troika che era, o sembrava, una possibilità di invertire la rotta che ci sta portando in un abisso senza fondo, anche perché la realtà è sempre più dialettica e dinamica di quanto riusciamo noi a immaginare, si sono rivelate all’atto pratico quello che sono,, appunto illusioni..

Con leggerezza facevamo probabilmente paragoni con altre situazioni apparentemente similari (il Venezuela, la Bolivia…), senza renderci conto che la partecipazione “democratica” e il voto hanno un significato profondamente diverso in paesi dove, come in Europa, questi concetti sono stati ormai svuotati del loro contenuto e sono diventati vuoti rituali rispetto a paesi dove essere riconosciuti come “cittadini” e poter votare è, oggi, un fatto rivoluzionario che implica organizzazione e partecipazione diretta.

Syriza ha comunque tradito le aspettative del popolo greco (con l’aggravante, ricordiamo, anche del trattato militare con Israele, il che significa la riaffermazione del legame con la NATO – ricordiamo che lo Stato greco spende il 3,1% del PIL, più che Gran Bretagna e Francia. Tra il 2005 e il 2009, gli anni in cui il debito si è gonfiato, la Grecia è stata uno dei cinque maggiori importatori di armi in Europa. I  26 F16 sono stati comprati dalla statunitense Lockheed Martin e i 25 Mirage 2000 dalla francese Dassault, con un contratto di 1,6 miliardi di euro) e ci ha ricordato una volta di più che è vero che non ci sono alternative: le strutture del capitale, si chiamino Stati o Unione Europea non si possono riformare dal di dentro, o si abbattono attraverso una rivoluzione proletaria instaurando un sistema socialista o qualsiasi tentativo di invertire la barbarie in cui stiamo sprofondando sarà sanguinosamente inutile.

 

Ci sarebbero decine di altri elementi di cui discutere, ma vorrei fare un accenno allo strumento del referendum. Io credo che bisogna riconoscere al popolo greco un enorme coraggio: con tutto l’apparato dell’imperialismo europeo (e non solo) schierato minacciando chissà quali disastri se avesse vinto il No, esso ha votato No. Del resto questo ha un precedente storico. Il 28 ottobre 1940 la Grecia riceveva un ultimatum dall’Italia fascista: lasciar entrare le truppe italiane in suolo greco senza colpo ferire (come finì lo sappiamo tutti, invece di “spezzare le reni alla Grecia”, furono quelle fasciste ad essere spezzate). La risposta fu un “grande NO”, e il giorno di tale “grande No” è da allora inserito nel calendario delle festività civili greche. Anche durante la feroce dittatura dei “colonnelli” (non così lontana dalla memoria dei greci), nonostante la proibizione e lo schieramento militare, in aperta sfida alla repressione, nel 1968 1 milione di persone parteciparono ai funerali di Gheorghios Papandreu. E in questi otto anni di crisi praticamente non è mai passato un giorno senza che ci fossero scioperi, fermate, proteste: non è tanto facile piegare questo popolo.

Il popolo greco nel referendum ha votato, come ricordava preoccupato e un po’ scandalizzato lo stesso Corriere della Sera, “al di là degli schieramenti politici, ma in base ai propri interessi”.

In base ai propri interessi” – di classe, aggiungiamo noi – non è la battaglia “di idee” e concreta che ci sforziamo noi di portare avanti ogni giorno là dove siamo presenti? Che un referendum non risolva nulla è chiaro a tutti, ma dice qualcosa di importante da cui partire.

 

Il discorso, ovviamente, non si chiude qui. A volte la sconfitta, se non ci demoralizza, è un’ottima maestra.

 

(*) Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” Via Magenta 88, Sesto San Giovanni

 

Dalla rivista “nuova unità”

 

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