PER NON DIMENTICARE

Riportiamo, dal libro[M. Michelino:1970-1983 - La lotta di classe nelle grandi fabbriche di Sesto San Giovanni] reperibile gratuitamente su internet, la testimonianza di un operaio su quei giorni che “sconvolsero il mondo”.

 

IL RAPIMENTO MORO L’ASSASSINIO DI FAUSTO E JAIO GLI SCIOPERI A DIFESA DELLO STATO

Il 16 marzo 1978, mentre in Breda Fucine si sta svolgendo un’assemblea, arriva la notizia del rapimento di Aldo Moro e dell’uccisione dei cinque poliziotti della scorta. Subito il dibattito, con toni da caccia alle streghe, viene indirizzato verso i militanti del Gruppo Operaio, ritenuti probabili “fiancheggiatori” della lotta armata in fabbrica perché sempre critici verso le scelte del sindacato e del PCI.
Durante l’assemblea ai lavoratori viene comunicato che i segretari generali delle tre organizzazioni sindacali Lama-CGIL, Macario-CISL, Benvenuto-UIL hanno dichiarato lo sciopero generale fino alla mezzanotte.
Nella stessa giornata il segretario del PCI Berlinguer, insieme agli onorevoli Natta e Pajetta, si reca nello studio privato di Andreotti (presidente del consiglio) a Palazzo Chigi, seguito da tutti i capi dei partiti che compongono il Governo. 
Ugo La Malfa del Partito Repubblicano esprime lo stato d’animo di tutti i borghesi, dichiarandosi per l’immediata adozione di “leggi eccezionali” e invocando la “pena di morte per i terroristi”.
In serata i cinque partiti che compongono la maggioranza di governo (Democrazia Cristiana, Partito Socialista Italiano, Partito Repubblicano, Partito Socialdemocratico e Partito Liberale) - insieme al Partito Comunista Italiano che, pur facendo parte della maggioranza, non ha ministri nel Governo - danno la fiducia nuovamente ad Andreotti facendo nascere il quarto Governo da lui guidato: il primo nella storia politica italiana ad aver ricevuto la fiducia in meno di 24 ore.

 Milioni di lavoratori vengono chiamati dai partiti, dai sindacati e da tutte le istituzioni ad “isolare i violenti”. La difesa dello stato e la solidarietà nazionale vengono presentati in tal modo come interessi operai.
Il 21 marzo 1978, 5 giorni dopo, il nuovo Governo vara dodici nuove misure per l’ordine pubblico, tra cui il fermo di polizia, la libertà di interrogare e perquisire senza mandato. Il ministro degli Interni, il democristiano Francesco Cossiga, in nome dell’emergenza, in un incontro con i tre segretari di CGIL, CISL e UIL, concorda con loro le misure da questi criticate e respinte alcuni mesi prima.
Anche Pietro Ingrao (PCI), presidente della Camera, in un’intervista al quotidiano L’Unità attacca duramente lo slogan di Lotta Continua: “né con le Brigate Rosse né con lo Stato” perché, dice Ingrao: “...se questa operazione dovesse trovare spazio ne deriverebbero due gravi conseguenze, e cioè che ormai contano solo le bombe e il popolo sarebbe spinto nella passività, e la polizia si troverebbe sola di fronte ai killers dell’eversione antidemocratica”.
Differenziarsi dalla strategia dei gruppi “combattenti” senza cadere nella trappola istituzionale e criticare nel contempo la scelta opportunista sostenuta da Lotta Continua e Democrazia Proletaria è la scelta del “Gruppo operaio” Breda, con interventi critici nelle assemblee e con una serie di volantini in cui spiega la propria posizione.
Inizia la caccia al terrorista
Alcuni giorni dopo il rapimento di Moro, intorno alle 4 del mattino fui svegliato dal suono prolungato del campanello. Ancora assonnato, guardai la sveglia e mi avviai verso la porta chiedendo chi fosse. La risposta concitata ed urlata fu: “polizia, aprite subito o spariamo”. Intontito dal brusco risveglio aprii la porta, per trovarmi davanti la canna di una mitraglietta impugnata da un carabiniere e, in una frazione di secondo, mi ritrovai in ginocchio con le mani dietro la nuca. Subito una decina di agenti dell’antiterrorismo e della Digos, sia in borghese che in divisa - ma tutti muniti di giubbotto antiproiettile, fecero irruzione nella mia casa. Alcuni si precipitarono nella stanza da letto, buttando letteralmente per terra mia moglie, altri andarono in cucina dove dormiva mia figlia di 5 anni, altri ancora entrarono in bagno.
Dopo quattro ore di perquisizione (in un appartamento di 35 metri quadri), dopo aver buttato all’aria tutto, smontato tutto lo smontabile a partire dai cassonetti delle tapparelle, sfogliato i libri pagina per pagina, messo da parte volantini e scritti poi sequestrati, mi portarono in strada. Sempre sotto la minaccia delle armi, seguiti dagli sguardi dei vicini che spiavano da dietro le finestre, perquisirono la mia auto. Solo allora mi resi conto quanti poliziotti fossero stati impiegati in questa operazione. Una decina tra poliziotti e carabinieri presidiavano i cinque piani di scale che portavano al mio appartamento; una decina tra macchine e furgoni della polizia e dei carabinieri erano parcheggiati fuori da casa mia. Fu questa la prima delle cinque perquisizioni che mi fecero in quegli anni.
Era cominciata la caccia alle streghe.
Alcuni giorni dopo il sequestro Moro, il 18 marzo, Fausto Tinelli e Lorenzo Jannucci (Jaio), due giovani frequentatori del centro sociale Leoncavallo, vengono assassinati pochi minuti prima delle 21 a colpi di calibro 38. In meno di un’ora alcune migliaia di persone si radunano nel luogo del duplice omicidio accusando i fascisti.
Il Gruppo operaio prende subito posizione ed al funerale dei compagni assassinati partecipa una folta delegazione di operai della Breda e delle altre fabbriche milanesi.
Nel frattempo gli scioperi a difesa dello “Stato democratico nato dalla Resistenza” si allargano alla difesa di tutte le “istruzioni democratiche”, compresi i poliziotti.
L’Italia diventa uno Stato di polizia
Nella sua relazione di minoranza alla “commissione Moro” presentata il 22 giugno del 1982, lo scrittore Leonardo Sciascia, deputato radicale, annota lo “sforzo” di polizia nei 55 giorni del sequestro Moro definendolo con l’aggettivo “imponente”: 72.460 posti di blocco, di cui 6.296 nella cintura urbana di Roma; 37.702 perquisizioni domiciliari di cui 6.933 a Roma; 6.413.713 persone controllate (oltre il 10% della popolazione italiana considerando vecchi e bambini) di cui 167.409 a Roma; 3.383.123 automezzi controllati di cui 96.572 a Roma.
La campagna affinché i bracci armati dello stato entrino a fare parte del sindacato insieme agli operai, perché anche loro sono “lavoratori”, si intensifica. In nome della lotta contro il “terrorismo”, la borghesia ed suoi agenti del sindacato e del PCI cercano di cancellare il concetto stesso di capitale e di sfruttamento operaio che sono alla base della società e su cui si fondano le sue istituzioni. Ripristinare le giuste categorie, riportare con i piedi per terra i concetti che sono alla base della società capitalista non è facile.
La campagna propagandata dai mass-media cerca di far apparire lo sfruttamento come legittimo, la società borghese come la più pacifica, “il migliore dei mondi possibili”, mentre l’attentato alla “democrazia” è denunciato come proveniente da isolati gruppi armati.
In nome del risanamento delle industrie e “della difesa del posto di lavoro”, spacciando come obiettivi operai la produttività, la competitività, il mercato e il profitto, il PCI ed il sindacato si fanno paladini del capitalismo italiano nel mondo.
L’obiettivo centrale delle confederazioni sindacali resta la difesa dei profitti, nascosta dietro la “difesa dei disoccupati” - a cui le rivendicazioni degli occupati dovrebbero subordinarsi. Intanto nelle fabbriche si chiedono gli straordinari.
Ma che rapporto c’è tra produttività e mercato, tra sfruttamento operaio e guerra?
Certe affermazioni che anni fa sembravano azzardate hanno oggi un puntuale riscontro nei drammatici avvenimenti internazionali. Il nazionalismo delle confederazioni sindacali viene denunciato non tanto a livello ideologico quanto in rapporto alle esigenze di sfruttamento degli operai. Nel frattempo monta la campagna sul “terrorista in fabbrica” con l’obiettivo di criminalizzare ogni lotta e ogni lavoratore che sfugge al controllo del PCI e del sindacato.
Intanto Guido Carli, a nome della Confindustria, dichiara la disponibilità degli industriali a creare 100.000 posti di lavoro in cambio dei sacrifici, trovando subito il plauso di Luciano Lama.

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