AUSTERITA'

Parole che uccidono

 

di Juan Torres Lòpez (*)

 

L’espressione “austerità” genera sentimenti di colpa, di sottomissione.

 

 L’amore a volte causa così tanti fastidi che, invece di produrre gioia, diciamo che uccide.

San Giovanni della Croce lo definiva per questo un non so che uccide con un non so che, e Santa Teresa ne soffriva come nessuno: “Mi ferisce una freccia, coronata d’amore”.

Alle parole succede, più o meno, lo stesso. Anche se ce ne rendiamo conto, quando si utilizza una qualsiasi di esse non solo si “dice” qualcosa ma si realizza un’azione che può modificare quello che ci sta intorno e, quindi, la nostra condotta.

 

Questo significa che le parole hanno capacità performativa o, secondo Derrida, hanno il potere di trasformare la realtà”.

Quando si utilizza l’espressione “austerità” per riferirsi alle politiche di tagli non è a caso. Con essa si genera un sentimento di colpa che genera a sua volta sottomissione, perché interpreta la perdita dei diritti che comportano come la conseguenza inevitabile di una nostra precedente ed eccessiva spesa. Oltretutto l’immensa maggioranza considera l’austerità come un valore positivo, così che quando si utilizza questa parola associata ad una determinata politica economica si sta riuscendo a che venga presa per buona al di là di quello che porta con sé, al di là del suo contenuto reale.

 

L’evidenza empirica mostra che se il debito che si vuole combattere con i tagli sociali è andato alle stelle, non è stato per colpa dell’aver avuto molte spese correnti (concretamente in educazione, sanità, assistenza o pensioni pubbliche che sono le partite che si tagliano), ma perché si pagano interessi  che vanno a favore, e sono totalmente ingiustificati, delle banche private, e le inchieste ci dicono che quasi l’80% della popolazione non vuole che questi tagli vengano fatti. Ma quando si associano alla parola “austerità” si accettano facilmente, perché si ritiene che questa sia naturale e desiderabile a fronte dello spreco e dello sperpero, che qualsiasi persona decente condanna.

La parola, quasi da sola, trasforma la realtà e condiziona la nostra condotta.

 

Qualcosa di simile accade con la parola “deficit” quando essa si riferisce alla prestazione dei servizi pubblici. Se ci dicono che la sanità e le pensioni pubbliche, o una televisione autonoma  o  un servizio municipale [N.d.t.: l’autore è spagnolo, e quindi si riferisce alle istituzioni del suo paese] sono in deficit, immediatamente pensiamo a qualcosa di negativo e di condannabile, in cui si è speso più di quanto dovuto e che, quindi,  bisogna tagliare o persino rinunciare ad esso.

 

Ma la realtà è che le attività o i servizi che si finanziano nel quadro di un bilancio pubblico non possono avere deficit o avanzo di bilancio in se stessi. Questi li possono avere i Bilanci Generali dello Stato, quelli di una comunità autonoma o di un Municipio, ma non le loro diverse “poste di bilancio”.

Così come non avrebbe alcun senso dire che  la direzione dello Stato o la polizia è deficitaria, non ha alcun senso nemmeno dire che lo sono la giustizia, l’educazione, le pensioni o una televisione pubblica.

Salvo che vogliamo “performare” la realtà per convincere  del fatto che la monarchia o la polizia o qualsiasi altro servizio pubblico è molto caro, che spende eccessivamente e che, quindi, è inutile o che le sue risorse devono diminuire.

 

Senza che quasi ce ne accorgiamo, usiamo parole che uccidono perché ci fanno credere quello che non è per renderci così più obbedienti.

 

Nessun servizio pubblico ha un deficit ma, in ogni caso, ha invece un finanziamento insufficiente . E lo ha perché una parte privilegiata della società non vuole contribuire a finanziarlo, come dimostra il fatto che solo applicando le misure proposte dai tecnici del Ministero  del Tesoro per combattere le frodi fiscali si raccoglierebbe praticamente la stessa entità (38.500 milioni di euro) dei tagli sociali di quest’anno.

 

Ma è evidente che non ha lo stesso effetto politico utilizzare  un’espressione o l’altra. Se ogni minuto sentiamo che il pubblico è deficitario, si chiederà che si tagli; se si parlasse del suo scarso finanziamento, si reclamerebbero più risorse, obbligando quelli che stanno in cima, e non solo quelli che stanno in basso, a raschiare il fondo delle tasche.

  

(*) Economista spagnolo, membro del Consiglio Scientifico di ATTAC Spagna; da: alainet.org; 10.11.2013

 

(traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni, MI) 

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